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Perché non va la legge sui CUS

Perché non va la legge sui CUS

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Interessante e articolato commento del nostro Stefano Marletta, coord. reg. della Liguria, sulla proposta di legge che vuole istituire e regolamentare le coppie di fatto (CUS). La fragilità di un contratto con caratteristiche anticostituzionali, una iniziativa che non rappresenta la priorità del paese mentre si dimentica di tutelare i minori e il loro diritto fondamentale ad avere una famiglia


Osservazioni al Disegno di legge
“Contratti di unione solidale


A) Considerazioni di ordine generale

A. 1. Il sen. Salvi, presidente della Commissione giustizia del Senato, ha presentato al Parlamento, in data 12 luglio 2007, un disegno di legge che si intitola “Contratti di unione solidale” (denominati, per brevità, CUS) e prevede il riconoscimento e la disciplina delle unioni di fatto.

Ancora una volta il fenomeno delle “convivenze” é fatto oggetto di una proposta normativa (la precedente, elaborata da due ministri, era il tanto discusso progetto sui “DICO”), nella dichiarata convinzione che vi sia una precisa esigenza, se non addirittura una urgente necessità, sociale di trasformare la condizione dei conviventi da situazione di mero “fatto” a situazione “giuridicamente rilevante”, utile cioè a giustificare il riconoscimento in capo ai conviventi stessi di diritti che altrimenti sarebbero loro negati.

A. 2. Questa volta la fonte del riconoscimento giuridico delle unioni è di natura puramente privatistica e consiste nella conclusione di un contratto per effetto di libera e concorde volontà dei contraenti, che possono essere anche dello stesso sesso: tuttavia gli effetti della stipula non sono limitati ai rapporti interni tra le parti, poiché comportano l’attribuzione in capo a ciascun contraente di un vero e proprio “status” (con la denominazione “parte di unione solidale”) , opponibile ai terzi per derivarne conseguenze giuridiche.

Resta valida anche per il disegno in questione la considerazione che poteva svolgersi con riguardo a tutte le precedenti proposte di legge: i diritti del cui riconoscimento ci si preoccupa non sono diritti e libertà fondamentali, ma piuttosto posizioni di specifica tutela e garanzia (pur se questa volta accompagnate, nel disegno di legge, anche dall’attribuzione di limitati doveri) che nel nostro ordinamento spettano solo ai coniugi, nel quadro dei rapporti che sorgono da quell’istituto unico e specifico che è il matrimonio, che gode di un dichiarato regime di garanzia e favore in virtù degli articoli 29 e 31 della Costituzione.

A tutt’oggi, infatti, né il legislatore ordinario né la Corte Costituzionale hanno mai potuto riconoscere i diritti di cui si tratta ai conviventi, poiché la convivenza, a differenza della famiglia fondata sul matrimonio, non è oggetto di un preciso impegno di promozione e sostegno da parte dello Stato ed è il frutto di una libera e consapevole scelta delle persone o la conseguenza della mancanza dei requisiti per la celebrazione del matrimonio.

La Corte Costituzionale ha più volte ripetuto che la ragione del diverso trattamento giuridico riservato a matrimonio e unione di fatto risiede nella considerazione che solo il matrimonio istituisce tra le parti un rapporto caratterizzato da stabilità e certezza, requisiti cui l’ordinamento guarda con favore poiché rispondono a principi che informano l’identità del nostro sistema giuridico anche al di fuori dell’ambito delle relazioni affettive.

Consentire, quindi, che la conclusione di un semplice contratto superi l’ostacolo della mancata celebrazione del matrimonio, con le cautele e le specifiche caratteristiche pubblicistiche di tale istituto, significa anzitutto stravolgere il principio di eguaglianza (art. 3 Cost) che impone di equiparare nel trattamento giuridico solo situazioni identiche.

Più specificamente, il disegno di legge, attraverso il riconoscimento alle persone conviventi di tutele riservate dall’ordinamento alle persone coniugate, sostanzialmente promuove le relazioni fondate sulla convivenza, agevolandone la formazione ed assimilandole nel trattamento giuridico alle famiglie fondate sul matrimonio (che lo Stato, in base all’art. 31 della Costituzione, è impegnato a sostenere nella formazione e nell’adempimento dei compiti).

Questa prima considerazione introduce un profilo di possibile incostituzionalità delle norme del disegno di legge.

A. 3. La nuova proposta ha una struttura che supera, evidentemente affossandola, quella della precedente bozza sui c.d. “DICO” (anche se nella sostanza molte norme sono state riprese), poiché abbandona l’idea che lo strumento del riconoscimento sia la semplice registrazione anagrafica della convivenza della coppia e che anche per iniziativa di uno solo dei due conviventi possa avvenire la legalizzazione dell’unione.

A. 4. A questo punto può essere utile ricordare la limitata entità del fenomeno sociale sottostante al progetto di legge: riportandosi alla realtà sociale italiana ed avvalendosi a tal fine dei dati ISTAT 2006, si può facilmente appurare che su 22 milioni di nuclei familiari, le coppie conviventi in termini numerici sono poco più di mezzo milione (più precisamente 564.000), e che solo il 47,2% delle coppie conviventi è composto da coppie di persone veramente libere, celibi e nubili, mentre nelle altre coppie almeno uno dei componenti proviene da una precedente esperienza coniugale (separati o divorziati).
Le unioni libere , cioè quelle originate dalla libera scelta della mera convivenza e dal rifiuto del matrimonio, sono quindi solo il 3,9% del totale delle coppie italiane (questi dati sono riportati nella recente pubblicazione “Convivenze all’italiana” di Belletti, Boffi, Pennati, Ed. Paoline, Milano, 2007).

D’altra parte, per quanto concerne il numero delle coppie di fatto potenzialmente interessate a regolarizzare la loro situazione, la stima espressa da uno dei massimi demografi italiani, il prof. Massimo Livi Bacci, ipotizza che solo 10 – 15.000 coppie farebbero ricorso al nuovo istituto se fossero introdotti i patti civili di convivenza (l’affermazione è contenuta in un articolo a firma del citato demografo, pubblicato su “La Repubblica” del 23 settembre 2005).

E’ evidente, quindi che la regolamentazione delle unioni di fatto non rappresenta una reale necessità del Paese e non si propone come una priorità dell’azione del legislatore.

Neppure potrà sostenersi la necessità da parte dell’Italia di adeguare la propria normativa a quelle degli altri Stati europei: anche in questo caso manca totalmente un’analisi sociale relativa agli ordinamenti nei quali sono stati introdotti patti civili di convivenza e/o matrimoni tra persone dello stesso sesso, che consenta di comprendere se e come sia cambiata la società dopo tale introduzione e quali benefici abbia tratto la collettività dall’adozione delle normative in questione.

Il riconoscimento e la regolamentazione delle unioni di fatto, infine, non è neppure oggetto di obbligo comunitario per l’Italia, poiché l’Unione Europea non ha una specifica competenza in materia nei confronti degli Stati ed infatti l’adozione delle normative sulle unioni di fatto è stata solo “raccomandata” dal Parlamento europeo, che non avrebbe potuto spingersi oltre tale indicazione, la quale comunque non vincola gli Stati membri.

A. 5. Il tema delle unioni di fatto e l’adozione di una normativa organica che le riconosca e regolamenti riporta, in realtà, al centro del dibattito italiano una questione che ha molteplici risvolti culturali, pedagogici, sociali, etici, prima ancora che giuridici.

La vera tematica sottesa al dibattito è, in realtà, il raffronto tra due diversi modelli di “famiglia” in senso lato, tra due diverse e contrapposte concezioni antropologiche delle relazioni familiari: quelle stabili e certe, fondate sul matrimonio che dà vita alla famiglia riconosciuta e favorita dalla Costituzione italiana; quelle instabili e incerte, fondate sul mero fatto della “convivenza”, consentita ma non agevolata né promossa nel quadro delle norme del nostro ordinamento.

Il concentrarsi del dibattito sulla necessità o meno di introdurre normative di favore per sostenere ed agevolare le unioni di fatto e le persone che le compongono lascia, poi, purtroppo, in secondo piano un profilo che pure dovrebbe rivestire primaria importanza: quello della tutela delle nuove generazioni e, più chiaramente, dell’attuazione di diritti fondamentali dei fanciulli.

Chiare disposizioni di convenzioni internazionali, riprese anche da norme italiane, garantiscono, tra i diritti fondamentali del fanciullo, il diritto ad avere una famiglia e fruire di un rapporto assiduo e costante con il padre e la madre: uno Stato realmente impegnato a garantire una siffatta tutela ai minori non può che operare nell’unica direzione di favorire il formarsi di coppie stabili uomo/donna, sostenere un clima sociale e culturale capace di rafforzare le responsabilità degli adulti verso i fanciulli e, laddove si sia formata un famiglia, agevolarne l’adempimento dei compiti con ogni mezzo, anche economico. Anche e proprio in tale prospettiva la nostra Costituzione riconosce e promuove la famiglia fondata sul matrimonio, sicché sarebbe contraddittorio e fuorviante che le nostre istituzioni si orientassero anche, in parallelo, a promuovere relazioni “familiari” caratterizzate dalla precarietà.

Concludendo, potrebbe restare in linea con la nostra tradizione e cultura giuridica e con i principi della nostra Costituzione una verifica diretta ad appurare se vi siano ambiti nei quali appaia oggi ingiusto trattare diversamente la persona convivente e la persona coniugata (con conseguente adozione delle modifiche normative, settore per settore, utili a superare tale disparità); ben altra cosa sarebbe, invece, adottare una normativa che regolamentasse le unioni di fatto sulla falsariga del matrimonio, per estendere al convivente alcuni soli aspetti della condizione giuridica del coniugato e, quindi, far partecipare le unioni di fatto a quel regime di favore che la Costituzione riserva alle sole famiglie fondate sul matrimonio.

Tra l’altro, anche a tacere delle accennate ragioni di tutela delle nuove generazioni, mentre le azioni di sostegno e agevolazione della famiglia legittima non necessitano di alcuna giustificazione, in quanto trovano la loro fonte nella relativa concezione recepita, tramite la composizione di diverse visioni culturali e politiche, dalla nostra Carta Costituzionale, una legislazione che promuovesse le unioni di fatto, estendendo loro i benefici riservati alla famiglia legittima, non potrebbe prescindere dallo spiegare le ragioni presupposte, le obiettive necessità ed i positivi effetti per la collettività di una tale scelta.

Al momento, tuttavia, nessuno ha ancora sostenuto in modo convincente che l’adozione di una normativa sulle unioni di fatto, che viene presentata come frutto di una visione culturale ormai diffusa a livello europeo, rappresenti per il nostro Paese una obiettiva necessità e possa contribuire al reale benessere della nostra società; risulta, invece, del tutto evidente che essa determinerebbe solo il riconoscimento di garanzie e favori a quelle poche coppie o a quei pochi individui interessati ad ottenere alcuni benefici del matrimonio senza doverlo contrarre. Con la conseguenza che le nuove generazioni si vedrebbero proporre un modello di comportamento più agevole e conveniente di quello che caratterizza l’identità, la peculiarità e la ricchezza del nostro Paese e che riflette principi (come la stabilità, la certezza delle relazioni giuridiche, la responsabilità) tipici e fondanti il sistema giuridico del nostro ordinamento.

A. 6. Le sorti parlamentari del progetto sui “CUS”, che istituisce un vero e proprio nuovo tipo di contratto, potrebbero essere più rosee di quelle del disegno governativo sui DICO, poiché il nuovo testo ha recepito una formula già espressa in altro progetto (quello del sen. Biondi, che proponeva contratti di solidarietà registrati da notaio), quindi potrebbe incontrare, oltre all’appoggio della maggioranza, anche il favore dell’area “liberal” della minoranza parlamentare.

A fronte dell’ennesima proposta di legge sulle unioni di fatto, peraltro, sorprende ancora una volta che, malgrado l’ampio dibattito di questi mesi, la presentazione del disegno non sia stata né preceduta né corredata da una precisa e documentata analisi del fenomeno sociale che si vuole regolamentare: si dà, quindi, ancora una volta per scontato, senza motivazioni, che sia indifferibile e prioritaria per il Paese l’adozione di una normativa organica di disciplina delle “unioni di fatto”, lasciandosi così intendere che i conviventi siano soggetti discriminati dalla società e quindi meritevoli di attenzione e sostegno da parte delle istituzioni (il che è ancora da dimostrare).

E’ vero, tuttavia, che questo modo superficiale e subdolo di presentazione della proposta di legge ingenera nell’opinione pubblica la convinzione che le Istituzioni (i parlamentari, il Parlamento, i ministri, il Governo nel suo insieme) si stiano occupando di un reale problema del Paese. L’approvazione di una legge sulle “unioni di fatto”, quindi, nel contesto di una recentemente denunciata inattività parlamentare, e delle molteplici difficoltà di coesione manifestate dalla maggioranza al governo, potrebbe servire anzitutto a dimostrare una ritrovata efficacia dell’azione istituzionale.

Il riconoscimento delle unioni di fatto diventa, così, il banco di prova dell’attuale governabilità del Paese, con evidente senso di irresponsabilità istituzionale per la mancata previsione delle conseguenze sociali dell’adozione di una legge che non si propone di garantire diritti inviolabili della persona, ma di cambiare le finalità dell’azione istituzionale del nostro Stato, mediante l’inserimento della promozione delle convivenze ingiustificatamente al fianco della doverosa promozione della famiglia fondata sul matrimonio.


B) Considerazioni sulle disposizioni del disegno di legge.

B. 1. Il disegno di legge prevede l’inserimento di un titolo nuovo, il XV, al termine del libro primo del codice civile, rubricato sotto il titolo “del contratto di unione solidale”.

Rispetto alla scelta normativa del disegno sui DICO, che faceva derivare conseguenze giuridiche dalla sola constatazione della convivenza anagrafica, questa nuova proposta ha il merito di dare risalto all’incontro della volontà delle parti, alla concorde scelta di dare vita ad una realtà giuridicamente rilevante. Ha, tuttavia, il demerito di strutturare tale realtà giuridica come confusa imitazione del matrimonio, eliminandone alcune caratteristiche e semplificando costituzione, vita e scioglimento del rapporto.

La tecnica normativa incide, così, sul fenomeno umano delle relazioni affettive, lasciando intendere (in contraddizione con la logica che presiede al progetto, volta alla valorizzazione delle unioni di fatto) che ci siano relazioni affettive più intense, che si fondano sul matrimonio, e relazioni affettive di minore rilevanza che istituiscono “soltanto” un contratto di unione solidale.

Ammesso, tuttavia, che si sia davvero voluto porre l’accento sulla natura contrattuale di questo secondo tipo di relazioni affettive, resta da comprendere a) se davvero l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale sia necessaria, considerato che il nostro sistema dei contratti è ispirato al principio di atipicità, consente cioè alle parti di dispiegare la fantasia, entro i limiti di validità del negozio, nella definizione dei suoi contenuti; b) se, anche ammessa la necessità di creazione di una nuova tipologia contrattuale, non fosse più coerente introdurne la previsione nel libro quarto del codice civile, “delle obbligazioni”, nel novero dei vari contratti tipizzati.

In realtà proprio la collocazione del nuovo istituto spiega quale ne sia il vero scopo: incidere, non tanto sull’autonomia delle persone (definendo a priori le obbligazioni tipiche del contratto di unione solidale) ma sul loro status, stabilendo che alcuni effetti giuridici si producano per il solo fatto di essere divenuti una “parte di unione solidale”.

B. 2. La stipula del contratto avviene con la congiunta dichiarazione della volontà delle parti alla presenza di un pubblico ufficiale (Giudice di pace o Notaio), il quale tuttavia non deve compiere alcuna verifica ma solo registrare quanto le parti dichiarano. Lo scioglimento del CUS, invece, può essere determinato anche da atti o fatti di derivazione unilaterale (la morte, il matrimonio, il recesso di un contraente), senza alcun controllo pubblico: il Giudice di pace si limita a ricevere ed archiviare la comunicazione bilaterale o unilaterale di un convivente che informa dell’avvenuto scioglimento.

Questa scelta normativa lascia intendere che, a differenza di quanto accade per il vincolo matrimoniale, il contratto di unione solidale non risponda ad interessi sovraindividuali, cioè collettivi o pubblici, sicché lo Stato si disinteressa della sua vita e delle sue sorti, limitandosi a renderne possibile la “pubblicità”.

Diviene allora incomprensibile la ragione per cui il disegno di legge preveda anche il riconoscimento, in capo ai contraenti del CUS, di diritti che comportano il sostegno e l’impegno dello Stato (agevolazioni e tutele in materia di lavoro, successione nella locazione, successione ereditaria, devoluzione della pensione reversibile).

Ancora una volta l’unica giustificazione di tali norme è la volontà di equiparare l’unione solidale al matrimonio.

B. 3. Il contratto ha un fine dichiarato : “l’organizzazione della vita in comune”, ma un contenuto da definirsi da parte dei contraenti ( la bozza si limita a dare indicazioni generali, art. 455 septies).

Quanto alla elencazione degli effetti della stipula del CUS, si desume che essi sono stati ripresi sostanzialmente dalla bozza dei c.d. “Dico” e riguardano, comunque, soltanto diritti, privilegi, sostegni garantiti al coniuge in attuazione di quanto previsto dall’art. 31 della Costituzione (assistenza di carattere sanitario, a agevolazioni e tutele sul lavoro, decisioni in campo sanitario; diritti successori).

Appare utile ricordare anche che ciascuno di tali diritti corrisponde, nell’ambito della relazione coniugale, ad un preciso obbligo. La legge, quindi, assiste il coniuge agevolandolo nell’adempimento dei suoi compiti ovvero dei suoi obblighi.

Così, ad esempio, l’assistenza ospedaliera del coniuge non è solo un diritto è adempimento di quell’obbligo di assistenza morale e materiale il cui mancato rispetto può addirittura esporre il coniuge alla responsabilità penale: nulla di tutto questo nel disegno di legge sui CUS.

E, ancora: le agevolazioni per i trasferimenti di sede lavorativa rispondono al sostegno che lo Stato assicura al coniuge che ha assunto l’obbligo della coabitazione: ben diverso è agevolare, come dichiara il disegno di legge “il mantenimento della comune residenza” di una coppia che non abbia assunto alcun obbligo di coabitazione.

Così, parimenti: la successione del coniuge o la reversibilità della pensione rappresentano la continuazione “post mortem” di quegli obblighi di solidarietà e mantenimento che i coniugi hanno reciprocamente e incondizionatamente assunto ai sensi dell’art. 143 cod. civ., i quali permangono anche, sotto il controllo dello Stato, in occasione della separazione o del divorzio.

Con la stipula del contratto di unione solidale, invece, gli obblighi delle parti riguardano la sola “contribuzione alla vita in comune”, sicché basta forse cessare la vita in comune per esserne liberati e basta comunque recedere dal contratto per sciogliersi da ogni vincolo. E’, tra l’altro previsto che gli effetti della risoluzione siano oggetto di specifica e libera regolamentazione delle parti. Quindi nel contratto si potrà prevedere che nessun obbligo reciproco sorga dallo scioglimento del contratto.

Qualora, per contro, il contratto non prevedesse gli effetti della risoluzione, il Giudice potrebbe deciderne a sua totale discrezione, prevedendo anche il risarcimento dei danni: le disposizioni che riguardano tale aspetto sono, tuttavia, talmente generiche (art. 455 quaterdecies) nella proposta Salvi, da impedire di comprendere a quali criteri il Giudice dovrebbe rifarsi nell’assumere la decisione.

Nella proposta colpisce, in ogni caso, come ogni possibile contrasto tra le parti dell’unione solidale, e quindi l’eventuale insorgenza di una vera e propria lite giudiziale, restino limitati alle sole conseguenze della rottura dell’unione, mentre senza alcuna verifica di requisiti e presupposti, ed in tempi non compatibili con la dichiarata natura del contratto, si perviene al suo scioglimento anche per iniziativa di uno solo dei soggetti contraenti.

Si può, quindi, osservare conclusivamente che, alla luce dei contenuti delle disposizioni della proposta Salvi, è seriamente dubitabile che il contratto di unione solidale offra reali garanzia di tutela dei conviventi (se non quelle già previste dall’ordinamento) e tanto meno che esso tuteli la parte debole delle unioni di fatto: infatti, nessuna efficace protezione è assicurata ai contraenti in relazione a patti, magari imposti da una parte all’altra, che non disciplinino le conseguenze dello scioglimento dell’unione e nei confronti di arbitrarie decisioni del Giudice, svincolato dal rispetto di ogni criterio di massima.

Stefano Marletta