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Mezzo mondo con poco cibo. La demografia non c’entra

Mezzo mondo con poco cibo. La demografia non c’entra

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GIULIO ALBANESE
Il drammatico tema della fame nel mondo è tornato nell’agenda internazionale in riferimento soprattutto all’aumento dei generi agro-alimentari e più in generale alla crescita esponenziale del prezzo del petrolio e alla domanda di bio-carburanti. E proprio in materia di sicurezza alimentare il politologo Giovanni Sartori ha sollevato recentemente la
vexata quaestio
demografica spiegando che l’inedia sta vincendo «perché ci rifiutiamo di ammettere che la soluzione non è di aumentare il cibo ma di diminuire le nascite, e cioè le bocche da sfamare». Da un’altra prospettiva, Jean Ziegler (ex relatore speciale Onu sul diritto all’alimentazione) invece ricordava, citando un rapporto ufficiale della Fao, che nel mondo si produce già cibo a sufficienza per sfamare 12 miliardi di persone. Il problema non sarebbe pertanto legato alla produttività delle materie prime agricole, quanto di non omogenea distribuzione dei prodotti. A dimostrazione di ciò sta il fatto che quando esplodono le cicliche carestie del Corno d’Africa, si possono comunque trovare ampie scorte di derrate in qualche altra parte del mondo, secondo le logiche del libero mercato. In termini di macroeconomia, l’agricoltura mondiale, unitamente al settore alimentare, rappresenta il secondo comparto in termini di redditività per coloro che operano nelle piazze finanziarie. In gergo tecnico si chiama ‘agrobusiness’ e ha determinato la scesa in campo delle grandi Corporation che mirano alla massimizzazione dei profitti. Il risultato è un’enorme speculazione che secondo il Wall Street Journal
comporterà il rincaro continuo degli alimenti in seguito all’aumento soprattutto del petrolio, e alla crescita di un ceto medio consumatore in grandi Paesi emergenti come Cina e India. Sta di fatto che l’agrobusiness di cui sopra, determinando condizioni di monopolio da parte delle multinazionali, penalizza fortemente i piccoli agricoltori che rischiano l’estinzione un po’ a tutte le latitudini. Riguardo invece alla relazione tra la fame nel mondo e la questione demografica, pare consolidarsi in alcuni circoli la vecchia tesi dell’economista inglese Thomas Malthus, fondatore della scienza demografica, secondo cui il tasso di crescita della popolazione umana, essendo esponenziale, avrebbe presto superato quella della produzione alimentare che segue una legge lineare di sviluppo. Nel suo Saggio sul principio della popolazione
(1798), Malthus spiegava che la popolazione tenderà ad espandersi consumando tutto il cibo disponibile senza lasciare alcuna eccedenza a meno che la crescita demografica non venga interrotta da guerre, carestie o pandemie. Se si trattasse di una valutazione solo economica, il suo ragionamento non farebbe una piega; ma il criterio di giudizio non può prescindere da un fenomeno sociologico che, bene o male, ha riguardato nel passato anche il nostro Paese. Le famiglie numerose si sono assottigliate perché la società dei consumi ha reso la vita più comoda e offerto una serie di garanzie che all’inizio del ’900 erano considerate unanimemente utopistiche. In molti Paesi del Sud del mondo, di converso, dove il tasso di natalità è molto elevato, la vita media è ancora bassa rispetto ai Paesi industrializzati e fare figli significa garantirsi l’assistenza durante la vecchiaia, visto e considerato che non esistono sistemi previdenziali degni di questo nome. Inoltre, sempre in questi Paesi la maggioranza della popolazione appartiene ai ceti meno abbienti. Non v’è dubbio, allora, che la diminuzione delle nascite, per contrastare le emergenze alimentari, sarà resa fattivamente possibile solo quando si affermerà il principio dell’equa distribuzione delle risorse planetarie, tanto caro al magistero sociale della Chiesa.
Avvenire