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Mamme in pensione prima

Mamme in pensione prima

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Egle Castrezzati, 60 anni, bresciana, è dal 1985 sposa di Mario Sberna e con lui condivide la guida di Anfn, l’associazione che raduna le famiglie numerose in Italia. Egle è mamma di quattro figli e nonna di Irene «una bellissima bimba che illumina le mie giornate di gioia e spensieratezza ». Ha lavorato 40 anni come operatrice socio-sanitaria in una struttura per anziani e, da pochi mesi, è in pensione. La nostra riavvolge il nastro della sua esistenza: «Penso all’immensa gioia di aver realizzato grandi ‘capolavori’, i miei figli: quelli naturali e quelli accolti in affido. Non c’è niente di più bello e miracoloso che essere madre, che portare dentro di te una creatura, sentirla crescere, darla alla luce e stringerla tra le braccia. Lo so, sono un’eterna romantica e confesso che ancora adesso, nonostante la mia età avanzata, mi commuovo quando vedo un bimbo nella culla o una mamma portare in ‘giro’ con orgoglio la propria pancia. La maternità è un’esperienza stupenda, avvolgente e sconvolgente», dice ad Avvenire.
Epperò da mamma lavoratrice «ho sempre dovuto affrontare molte sfide e difficoltà. L’organizzazione domestica non è stata facile soprattutto quando si lavora fuori e si hanno tanti bambini da accudire ». Fatiche e ritmi che a volte possono scoraggiare.
Anche Cristina Maculan, 60 anni, romana (ma originaria del Piemonte) è mamma di famiglia numerosa. Ha otto figli, di cui cinque sono ancora in casa. E poi due nipotini. Suo marito, Mauro, è un lavoratore dello spettacolo: un settore che prevede alti e bassi e che non ha mai garantito una continuità delle entrate. È anche per dare un po’ di certezze economiche che Cristina ha deciso di mettersi in gioco: da molti anni lavora come educatrice: «Un lavoro che mi ha dato tantissime soddisfazioni ma che oggi, con l’età che avanza, comincia a diventare pesante. Occuparsi di bambini che vanno da pochi mesi a tre anni, per tante ore al giorno, diventa, col tempo particolarmente faticoso. Specie se poi, a casa, pur con l’aiuto del marito, ti aspettano tante incombenze… ».
Sì, perché le donne lavoratrici, quando tornano a casa, una volta dismesso l’abito da lavoro retribuito, volano al guardaroba per cercarsi quello di professione mamma (per dirla con il titolo dell’evento organizzato ogni anno a Perugia da Anfn) che richiede competenze e flessibilità notevoli per svolgere al meglio più servizi in uno: addette alle pulizie e agli acquisti, cuoche, assistenti personali, psicologhe, insegnanti, infermiere, personal shopper e & fashion stylist, educatrici, organizzatrici di eventi, contabili e autiste personali. E più il numero dei figli aumenta, più le cose si fanno complicate.
Secondo uno studio Anfn, se il lavoro portato avanti da una mamma full time fosse affidato a professioniste, costerebbe alla famiglia committente poco meno di 4mila euro, circa 50mila lordi all’anno. Un risparmio che scende a 35/37 mila euro all’anno nel caso in cui la mamma è anche lavoratrice e, giocoforza, deve poter contare, talvolta, anche su aiuti esterni. E invece: niente busta paga, né tredicesima, né ferie, né bonus… solo qualche abbraccio. L’Associazione nazionale famiglie numerose rilancia al governo una proposta: «L’Inps riconosca alle madri lavoratrici di andare in pensione dodici mesi in anticipo per ogni figlio messo al mondo». Una misura che avrebbe un duplice scopo: «Premiare quelle donne che danno il loro contributo al ricambio generazionale, garantendo ancora un po’ di futuro ad una società sempre più vecchia. E riconoscere fatiche che, in molti casi, sono superiori a quelle del loro partner – commenta Alfredo Caltabiano (Osservatorio politico Anfn) –. Perché avere il doppio abito di lavoratrice e di sposa, mamma e figlia di anziani è un lavoro… usurante ». Osserva ancora l’esperto: «Oggi ci sono tre strumenti che consentono di anticipare l’uscita dal lavoro ed ottenere una pensione. Uno è quota 100, grazie alla quale si può andare in pensione con una età anagrafica non inferiore a 62 anni e anzianità contributiva non inferiore a 38 anni. L’altra è Opzione donna grazie a cui si può andare in pensione con un’età anagrafica non inferiore a 58 anni (se si è dipendenti) e a 59 anni (se si è lavoratrici autonome) e almeno 35 anni di contributi. Infine c’è l’Ape sociale, grazie alla quale possono accedere alla pensione – con un’età di almeno 63 anni e almeno 30 anni di anzianità contributiva – le lavoratrici che si trovano in stato di disoccupazione, assistono parenti con handicap o abbiano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 74% con anzianità contributiva di almeno 30 anni, o, ancora siano lavoratrici dipendenti – con alle spalle almeno 36 anni di contributi – e facciano parte, al contempo, di una delle categorie protette. Strumenti, questi, che scadono tutti alla fine di quest’anno. In assenza di nuovi interventi, le mamme dovranno attendere quantomeno i 64 anni per uscire dal mondo del lavoro e dedicarsi al loro fondamentale ruolo di cura (magari proprio quando iniziano a ridursi i carichi familiari). Di qui la domanda: non è possibile riconoscere a queste donne un piccolo ma importante, anche per il suo valore simbolico, intervento aggiuntivo? Ecco la richiesta che la nostra associazione, sin dalla sua costituzione nel 2005, porta avanti: il riconoscimento di contributi integrativi per ogni figlio a carico». (cfr. Accesso alla pensione per le mamme lavoratrici, le proposte dell’Associazione Nazionale Famiglie Numerose)
Guarda con interesse alla proposta Paola Fosci, di Rimini, «Felicemente madre di sei figli e da poco anche nonna». Una famiglia numerosa, «pur desiderata, è impegnativa anche da un punto di vista economico. Ed è diventato obbligatorio dividersi tra lavoro, figli e casa. Il mio è un lavoro turnista che comprende anche le notti e varie volte mi è capitato di rientrare la mattina, sistemare i bambini ed accompagnarli a scuola suddividendo il compito con mio marito. E il riposo? Dopo…. sempre dopo.
Con l’arrivo della quinta figlia, poi, sono passata ad un lavoro part-time: una scelta forzata in quanto le esigenze dei bambini, nel tempo, sono cresciute».

 

«TROPPE VOLTE LA MATERNITÀ DIVENTA ESCLUSIONE DAL LAVORO»

Le donne fanno più fatica degli uomini ad accedere al mercato del lavoro, specie se hanno scelto o messo in conto di fare una vita anche da moglie e da madre: ed in effetti una su due ne resta fuori o perché il lavoro nemmeno lo cerca o perché ha verificato che non sarebbe compatibile con il suo status di mamma o di figlia chiamata ad accudire i vecchi. Ed anche quando trovano un datore di lavoro disponibile a presentare loro un contratto, spesso si limita a quattro o cinque ore di lavoro al giorno, non di più.

I dati parlano chiaro. A dicembre 2020 le donne lavoratrici erano 9 milioni e 530 mila. «Di queste – osserva Liliana Ocmin, responsabile nazionale del coordinamento donne della Cisl – una su tre ha in tasca un contratto di lavoro part-time: in particolare nel settore privato una su due lavora part-time (quando gli uomini che hanno un part-time sono 16 ogni 100), mentre nel pubblico solo una dipendente su 10 ha un contratto part-time (quando solo 3 uomini su 100 vi fanno ricorso)». Le donne che sono state «costrette a ricorrere ad un orario ridotto sono quasi due milioni (1.969, per l’esattezza). Un fenomeno, quello del part-time involontario che, nell’ultimo decennio – secondo la dirigentesindacale – è cresciuto del 61,3%».

All’arrivo del figlio, poi, diverse donne hanno poi deciso di lasciare il lavoro: «Secondo il report dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2020 30.911 donne (e 9.110 uomini) si sono dimessi dal lavoro perché hanno deciso di dedicarsi alla famiglia. Di queste/i il 61% ha 1 figlio (59,5% nel 2019), il 32% 2 figli (33,1% nel 2019 e il 7% più di 2 (7,4% nel 2019). L’età del figlio che più incide in questo fenomeno è quella fino a 1 anno, seguita da quella fino a 3 anni».

Il part-time è solo una delle cause del cosiddetto gender pay gap ovvero della differenza di salario tra uomo e donna: «Molte lavoratrici non possono concedersi di fare straordinari e tre su dieci rinunciano – o, in qualche modo, vengono invitate a rinunciare – alla carriera. Sì che, anche a parità di mansioni e di istruzione, e con in tasca un contratto di lavoro full-time – osserva ancora Ocmin – la donna guadagna, in media, a parità di mansione tra il 5 ed il 6% in meno del collega uomo se lavora nel pubblico, intorno al 20% del collega uomo se lavora nel privato».

Quote percentuali che si traducono, nell’immediato, in buste paga più leggere, ma che alla lunga incideranno anche sulla pensione.

Osserva Liliana Ocmin: «Gli interventi normativi degli ultimi anni hanno equiparato uomini e donne nei requisiti necessari per accedere alla pensione di vecchiaia. Epperò restano ancora molte differenze fra i due generi nel mercato del lavoro, nei percorsi professionali e nella distribuzione del lavoro di cura in famiglia. Le stesse misure adottate per rendere più flessibile l’accesso alla pensione, come l’Ape sociale o Quota 100, sono state utilizzate da poche donne, perché il contributo richiesto era troppo alto». Anche il sindacato si è fatto promotore, nei tavoli con il governo, della proposta di «riconoscere alle donne che sono madri e al contempo lavoratrici dodici mesi di anticipo per ogni figlio (o a scelta della lavoratrice una maggiorazione del coefficiente di trasformazione)».

Nel caso delle famiglie numerose – secondo uno studio Anfn – sulle circa 127mila con più di quattro figli «poco più di una su due – osserva Emanuela Garavelli, mamma di prolenumerosa e che sta seguendo da vicino la proposta associativa – lavora, mentre le altre hanno deciso di dedicarsi completamente alla cura della famiglia. Un dato, questo, piuttosto omogeneo tra le diverse zone del nostro Paese».

Fonte: Avvenire – Noi in famiglia (10 ottobre 2021) di Andrea Bernardini  (scarica il pdf della pagina intera)