• it
Il Paese delle culle vuote

Il Paese delle culle vuote

30 views
Condividi

«In Italia c’è un crollo della natalità: dal 1965 il numero dei nati si è ormai dimezzato. E da qui al 2050 i figli non sostituiranno i genitori. Tra le dieci città europee con più anziani addirittura sette sono italiane». Esce un libro di Enrico Letta

Il Paese delle culle vuote

«La denatalità è anche sintomo di una povertà culturale. E se una giovane coppia sceglie di non avere figli è un problema di tutti. La politica può fare molto. Rispetto all’estero abbiamo più giovani disoccupati e quelli che lavorano guadagnano meno»

Di Enrico Letta

In Italia di invecchia più velocemente che altrove. Secondo «Eurostat», tra le dieci città europee con la maggiore percentuale di anziani, addirittura sette sono italiane. La piramide demografica si sta capovolgendo: la base si restringe e il vertice si allarga, a una velocità che – ancora dieci anni fa – era difficilmente immaginabile. Una piramide demografica, quella dell’Italia, sempre più a forma di «fungo» e sempre meno a forma di «albero di Natale».
Ovunque, nei Paesi avanzati, grazie ai progressi ottenuti sul terreno della prevenzione e in ambito sanitario, si può sperare di vivere sempre più a lungo. La vita media della popolazione europea, che è cresciuta di circa otto anni dal 1960, è prevista in aumento di altri sei nei prossimi cinquant’anni. In Italia, però, tutto questo si accompagna a un crollo impressionante della natalità: dal 1965, il numero di figli per donna si è dimezzato. Un’italiana, a metà degli anni Sessanta, aveva in media tre figli. Oggi, uno virgola qualche piccolo decimale. Attualmente c’è meno di un figlio adulto per ogni genitore anziano. E le stime dell’«Istat» non fanno ben sperare: da qui al 2050, malgrado una timida ripresa della natalità, i figli non sostituiranno comunque i genitori. La crescita demografica è in affanno e solo con l’immigrazione, come vedremo, si riesce in qualche modo a compensare il crollo della popolazione. Condividono questa fragilità, in Europa, anche Spagna, Portogallo, Grecia, Germania e tutto l’Est.
Promuovere la natalità deve diventare una missione europea e nazionale che, a partire dall’impegno della politica, non può che coinvolgere a cascata la società nel suo complesso. Sulla bassa natalità le istituzioni possono intervenire con successo. Con il Libro verde sull’invecchiamento della popolazione e con il vertice di Hampton Court, nel 2005, la sfida demografica è stata lanciata pubblicamente a livello comunitario: è una battaglia non meno importante di quelle per l’innovazione, l’istruzione, la salvaguardia dell’ambiente. E proprio perché il caso italiano è anche un caso europeo, o almeno di una certa parte di Europa, si deve immaginare una strategia per la natalità che, sulla falsariga dell’Agenda di Lisbona, fissi obiettivi demografici su scala comunitaria e indichi gli strumenti e gli investimenti più idonei per raggiungerli. Ispirandosi all’altra Europa, quella che si rinnova, quella dei Paesi scandinavi e della Francia. Si potrebbero così «importare» le politiche vincenti, con la flessibilità imposta dalle peculiarità di ciascun Paese, come, ad esempio, le forti detrazioni fiscali per la nascita del terzo figlio che, adottate in Francia, hanno impresso una decisa scossa alle abitudini demografiche. I dati parlano chiaro: più di un terzo delle mamme francesi ha almeno tre figli. In Italia sono solo il 18 per cento.
La denatalità non è soltanto sintomo di un disagio sociale, ma ancor prima di una povertà culturale, profonda e radicata. La cui tendenza deve essere invertita nell’immediato e in modo risolutivo. Prima che sia troppo tardi. Prima, cioè, che la società si aspetti che ci si debba quasi giustificare per la decisione di avere un figlio. Già oggi arrivare alla maternità prima dei trent’anni è quasi una rarità: se capita, deve essere stato un errore, difficilmente si è trattato di una scelta. In vent’anni, tra il 1950 e il 1970, come osserva il demografo Massimo Livi Bacci, l’età media di nascita del primo figlio è salita, in Italia, da 25 a 31 anni, e l’andamento attuale lascia intuire, per il futuro, un incremento ulteriore. Diverso è il dato per le donne straniere che, a 25 anni, hanno in media il doppio dei figli delle italiane.
La grande difficoltà è proprio di matrice culturale. Oggi i giovani italiani vivono in un sistema che non li mette al centro dell’agenda economica e sociale e che li porta inevitabilmente a rimandare le scelte di vita. Rimangono troppo a lungo a casa con i genitori e posticipano la decisione di “metter su famiglia”. Fino, a volte, a non poterla prendere mai questa decisione. In Italia, secondo «Eurobarometro», circa il 50 per cento dei giovani riceve soldi e aiuti costanti dai genitori, a fronte di una media europea del 29 per cento. Eterni ragazzi che rischiano di diventare giovani anziani. In altre parole, i giovani finiscono la scuola tardi, lasciano la casa dei genitori tardi, si sposano tardi, hanno i figli tardi e muoiono, per fortuna, tardi. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che in Italia, rispetto all’estero, meno giovani trovano lavoro e, tra quelli che ci riescono, i redditi percepiti sono mediamente inferiori.
Ancor prima di concentrarsi sul numero di figli, occorre dunque trasmettere alle coppie lo slancio e la fiducia per decidere di fare presto il primo bambino. Se una giovane coppia italiana, che già con difficoltà decide di unirsi, sceglie di non avere figli, o di fermarsi al primo, non è una «questione di famiglia»: è un «problema di tutti». Dello Stato e delle imprese. Su questo punto la politica può fare molto. Troppo spesso la strada di un genitore che lavora – in particolare di una mamma – è un percorso a ostacoli. E non sempre si arriva al traguardo senza aver dovuto compiere delle rinunce.
Si è trasmesso finora proprio ai giovani un messaggio allarmante: si vive più a lungo, dunque le vostre «possibilità» nei prossimi anni si ridurranno. Questo «ringiovanimento della società» – che, in Italia, diventa «invecchiamento della popolazione» – è in realtà una buona notizia se, appunto, la società italiana torna a rinnovarsi. È un dato di fatto: la società moderna può «utilizzare» le persone per più tempo. E i «saperi» degli anziani messi al servizio della comunità sono un immenso patrimonio, difficilmente sostituibile, di competenze acquisite nel tempo, che viene invece troppo spesso sottoutilizzato.
avvenire