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Utopia

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Pubblichiamo il discorso presentato il 12 febbraio da Regina Florio Maroncelli, presidente Elfac e responsabile del settore estero della nostra associazione, all’evento tenuto nel corso della 57esima Commissione sociale dell’Onu sul tema del riconoscimento del lavoro invisibile, il lavoro domestico di cura non retribuito.

 

 

E’ un onore incredibile essere qui, all’Onu, in sè il luogo della grande Utopia.

Sono una mamma di 4 figli, sono una volontaria. Lo scorso anno sono diventata presidente dell’Elfac, la Confederazione Europea delle famiglie numerose, nata nel 2004 per difendere i diritti delle famiglie con 3 o più figli.
In vista delle prossime Elezioni Europee, Elfac ha lanciato una campagna per chiedere ai candidati, tra le altre cose, di riconoscere il lavoro domestico non retribuito svolto da milioni di padri, madri, educatori e volontari per calcolarlo nel computo del PIL, come contributo alla ricchezza del paese, come già è fatto per diverse attività quali per esempio prostituzione e gioco d’azzardo.

Può sembrare un paradosso monetizzare qualcosa che è inestimabile: il dono del proprio tempo e della propria energia per il bene dell’altro. Ma questo è il linguaggio di oggi e dobbiamo farci capire, perchè riguarda il capitale umano di un paese e lo rende un paese migliore.

Il lavoro di cura non retribuito è l’attività più nobile che c’è: dà senso alle nostre vite, è fondamentale per ognuno di noi e non è sostituibile da nessun tipo di prestazione professionale. Ti fa sentire apprezzato, accolto e amato, significa persone equilibrate capaci di relazioni autentiche e solide, ha ricadute positive sulla società intera.

In una famiglia numerosa, l’impatto del lavoro di cura è enorme: richiede organizzazione, competenze multitasking. Tra le altre cose, io sono una cuoca, una colf, un’autista, psicologa, infermiera, personal shopper. Hanno calcolato che una “home manager” come me potrebbe guadagnare 3.000€ netti al mese…

Io non ho vacanze, non ho giorni di malattia, non ho goduto del congedo di maternità e non riceverò una pensione. Lo sapevo quando ho scelto di diventare una “mamma che non lavora” alla nascita del mio terzo figlio, ma sentivo che era importante per la mia famiglia “esserci”. Per mio marito e me si è rivelato il nostro investimento migliore.

Quello che non sapevo, ma ho imparato presto, era che la mia scelta non era per nulla capita. In diverse occasioni ho avvertito che avrei riscosso più comprensione e rispetto se fossi stata la baby sitter dei miei bambini.

Essere “solo” la madre non era abbastanza: se non produci, non esisti, sei invisibile. E non è una bella impressione.

Vivo in una parte d’Italia dove la percentuale di donne che lavorano fuori casa è vicina a quella dei paesi Nordici. La disapprovazione sociale che circonda le mamme che “stanno a casa” è forte, per non parlare di quella verso i padri. Ma la pressione economica può essere insopportabile: il sistema fiscale è costruito per scoraggiare le famiglie monoreddito. La flessibilità è ancora una chimera  e non è per nulla facile rientrare sul mercato del lavoro una volta fuori. Il benessere dei bambini non è quasi preso in considerazione, i genitori lavorano fuori casa per pagare altre persone che si prendono cura dei loro figli e dei loro anziani. Sono tutti di corsa e piuttosto infelici.

E un paradosso chiamato economia, il paradosso dei migranti che lasciano figli e anziani nel loro Paese per curare figli e anziani di altra gente, il paradosso di lamentarsi per il calo delle nascite mentre i genitori sono portati allo stremo.

Oggi i figli sono un fattore di rischio di povertà. Avere una famiglia numerosa e restare a casa ad accudire i propri cari sta diventando un lusso per pochi.
Tutto questo è profondamente ingiusto.

Stiamo scivolando verso un nuovo tipo di schiavitù che ci sta rubando il tempo e quanto di meglio c’è nella vita: l’esperienza della maternità, prendersi cura di chi amiamo senza lasciare indietro nessuno.

Quando ero giovane mi dicevano di studiare, per potere essere sempre indipendente.
Oggi raccomando ai miei figli di non dimenticare cosa è davvero importante nella vita. Spero che sappiano discernere.

Misure per riconoscere il lavoro invisibile esistono. Alcune sono già attive ma c’è molto ancora da fare. Non c’è un solo unico modo, sta alla creatività di ogni Paese trovare la soluzione migliore per sé.
L’Ungheria riconosce un contributo per le mamme non lavoratrici fino ai 3 anni di età del bambino, la Spagna prevede il bonus di un anno per figlio per le mamme lavoratrici, in Italia c’è l’assicurazione infortuni per le casalinghe. Sono misure atte a ridurre l’iniquità e restituire una certa giustizia economica  a chi si destreggia nella doppia occupazione di mamma e lavoratrice, lavora dentro e fuori casa, oppure formazione e servizi per sostenere i caregiver a tempo pieno, magari con un salario che garantisca la necessaria indipendenza economica che oggi manca.

Si tratta di un nuovo modo di vedere le cose, un nuovo ambiente a misura di famiglie che rafforza le famiglie nella loro mission, sostiene la de- istituzionalizzazione e il convolgimento personale e offre alle persone le opportunità per scegliere, in libertà. Dobbiamo concentrarci sul benessere della gente, genitori, bambini, anziani, famiglie, perchè diventino quello che davvero sono, una risorsa di sviluppo sociale e economico.
E’ una rivoluzione, forse è pura utopia. Ma qui siamo nel posto giusto per sperare e sognare.