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“Il nostro Paese incoraggia le famiglie a non fare figli”

“Il nostro Paese incoraggia le famiglie a non fare figli”

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Il commento di Giuseppe Pasini allo studio della Caritas presentato in questi giorni. D’altra parte lo si sapeva: a fronte di un impegno finanziario per la protezione sociale pari a 1/4 del pil, in linea con gli altri paesi Europei, l’Italia dedica alla famiglia circa il 2% del proprio prodotto interno lordo. La spesa sociale é per lo più riservata a pensioni e tfr (56,1%), e sanità(25,4%) voci che negli ultimi dieci anni hanno visto anche un aumento dell’impegno, mentre l’assistenza sociale é scesa dal 14,6 all’11,9%. Non certo i dati di un paese che investe sul suo futuro.
Riportiamo in allegato, oltre al commento di Pasini e di Don Vittorio Nozza ,la sintesi del rapporto.

Caritas italiana e Fondazione Zancan
RASSEGNARSI ALLA POVERTA’
Settimo rapporto su povertà ed esclusione sociale in Italia

Introduzione
Giuseppe Pasini**

Le ragioni di una scelta
Caritas Italiana e Fondazione «E. Zancan» hanno scelto, come obiettivo centrale del 7°
Rapporto su ‘Povertà ed esclusione sociale’, di contribuire a realizzare un piano di lotta
alla povertà.
La scelta rientra nella tradizione operativa di questi due organismi. Essi sono impegnati
non solo ad evidenziare e a denunciare le disfunzioni e le contraddizioni presenti nello
Stato sociale nel nostro Paese, ma anche ad offrire contributi positivi per il loro
superamento.
Le ragioni della scelta che caratterizza il 7° Rapporto sono sostanzialmente tre: l’assenza
di un piano di contrasto alla povertà, la ricaduta negativa di questo vuoto nella famiglia, il
rischio di un progressivo allargamento dell’esclusione sociale.

Un vuoto da colmare

La prima ragione è che l’Italia manca di un piano di lotta alla povertà. Storicamente, dai
Governi del dopo guerra, il problema fu preso diverse volte in esame. Domenico Rosati
ripercorre nel suo saggio l’intero arco delle iniziative più caratteristiche, a partire
dall’inchiesta parlamentare “sulla miseria e sui mezzi per combatterla”, promossa nel 1951
e affidata all’On. Ezio Vigorelli; passando poi allo schema decennale “per lo sviluppo
dell’occupazione e del reddito” del 1954; ai vari programmi del Centrosinistra; alla
strategia dell’uguaglianza proposta da Ermanno Gorrieri e condensata più tardi nel libro
“Parti uguali fra disuguali” (2002); alla legge 328/2000, che prevedeva dopo il ciclo
sperimentale del “Reddito Minimo d’Inserimento”, un’integrazione al reddito per tutte le
persone che si trovavano, per qualsiasi motivo, sotto la soglia della povertà, unita però ad
un accompagnamento dei poveri, finalizzato al loro reinserimento sociale; al “Reddito di

ultima istanza, di stampo prettamente assistenziale, previsto nel “Patto per l’Italia” del
2001.
In sintesi la storia del nostro Paese è come disseminata di ‘buone intenzioni’ ma esse non
si sono mai tradotte in un piano esplicito, serio, organico di lotta alla povertà, ivi compresa
la dotazione di criteri e di tempi di verifica della sua efficacia.
Tutto questo, nonostante il permanere della povertà, pur nella sua evoluzione. L’Istat
infatti, sèguita da parecchi anni a fornirci dati statistici pressoché immutati sul numero dei
cittadini collocati sotto la “soglia della povertà” (circa 7,5 milioni). Nelle sue ultime
pubblicazioni di dati essa richiama l’attenzione sul fatto che almeno 900.000 famiglie in
Italia non vengono comprese tra i poveri, solo perché superano la soglia della povertà, per
una somma che va da un minimo di 10 €uro ad un massimo di 50 €uro al mese. Per tale
ragione, l’Istat ha considerato l’opportunità di aggiungere, accanto alla categoria dei
poveri, quella dei “quasi poveri”, comprendente le persone in stato ‘vulnerabilità’, ossia in
serio rischio di caduta della povertà.
Sta proprio qui il problema: come considerare la presenza di una fascia così consistente di
poveri, in un società ricca come la nostra ?
Considerarla fatalisticamente – ecco la rassegnazione – come una componente ‘naturale’
dello sviluppo economico, che lo Stato dovrebbe limitarsi ad arginare, impedendo che
divenga esplosiva e pericolosa per l’ordine pubblico, ma senza illudersi di poterla
eliminare?
Oppure ritenerla un fenomeno da affidare agli interventi volontaristici e umanitari, che lo
Stato dovrebbe incoraggiare e promuovere, ma senza mai intromettersi in prima persona?
Caritas e Fondazione Zancan ritengono che la teoria della ‘povertà naturale’ è una
spiegazione di comodo, che si rifà ad una concezione della società vecchia e superata. La
povertà non esiste in natura ma, come afferma Rosati, è conseguenza di situazioni in cui
‘la politica non frequenta la giustizia’.
Esse escludono inoltre che il problema della povertà possa essere risolto delegandolo al
solidarismo privatistico. Gli interventi del privato-sociale e della stessa Chiesa sono
indubbiamente utili e necessari, ma sono di loro natura integrativi dell’intervento pubblico e
per lo più settoriali. Non hanno pertanto né la capacità né il potere di affrontare
globalmente il problema della povertà e delle sue cause, né quello di garantire ai poveri
risposte sul piano dei diritti.
Ora è proprio questo che la Costituzione Italiana prevede: “Tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale e sono uguali…” (art.3); “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al
lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto” (art. 4).
Pertanto è difficile pensare che la povertà possa essere superata, sia pure gradualmente,
senza un piano organico che coinvolga in prima persona l’Istituzione pubblica.

Povertà e promozione della famiglia
Una seconda ragione che ci ha incoraggiati a focalizzare il rapporto sul piano di lotta alla
povertà, scaturisce dal legame esistente tra povertà e denatalità.
Com’è noto, nella misurazione della povertà è invalso, nel contesto italiano, il riferimento ai
consumi piuttosto che ai redditi, e inoltre si è preferito assumere come unità di analisi la
famiglia anziché il singolo individuo. Una famiglia è considerata povera quando la sua
possibilità di consumi, è inferiore alla metà della famiglia media italiana.
L’analisi su “I volti ufficiali della povertà”, curata nel rapporto da Maria Bezze, conferma un
dato già noto e cioè che la povertà si concentra più facilmente nelle famiglie numerose
(quelle con cinque o più componenti) e nelle famiglie con figli soprattutto minori.
In buona sostanza, le realtà familiari con più figli sono più esposte alla povertà.
Brutalmente possiamo dire che ogni figlio che si aggiunge costituisce per la famiglia una
crescita del rischio dì impoverimento.
Il nostro Paese, coscientemente o meno, incoraggia le famiglie a non fare figli; nessuno
infatti liberamente sceglie di impoverirsi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’Italia sta agli
ultimi posti nel mondo per quanto concerne la fecondità familiare.
I curatori nel presente rapporto auspicano che il Paese prenda coscienza di questa scelta,
che è insieme suicida e in netto contrasto con la Costituzione. La nostra Carta infatti
afferma che “La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la
formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle
famiglie numerose” (Art. 31). Disimpegnarsi dal problema della povertà, equivale a favorire
una società sempre più vecchia e dalle prospettive future preoccupanti.
Un serio piano di contrasto alla povertà, d’altronde, non può esaurirsi nella produzione di
misure riparatorie di una realtà già degradata, ma impone di sviluppare anzitutto interventi
di prevenzione della povertà: tra questi va data priorità alle politiche a sostegno delle
famiglie.

Povertà e partecipazione democratica
Tradizionalmente, i rapporti Caritas-Zancan portano un sottotitolo: “Rapporto su povertà
ed esclusione sociale in Italia”. Non si tratta di un accostamento casuale o decorativo,
assunto, peraltro, anche dalla Commissione d’indagine governativa. L’accostamento
proviene dalla convinzione che tra i due termini esiste un rapporto di causa-effetto.
È abbastanza evidente che i poveri, già molto impegnati nella sopravvivenza quotidiana,
non hanno né il tempo né la voglia di occuparsi della ‘cosa pubblica’. Chi si sente
trascurato ed escluso dall’Amministrazione pubblica, è comprensibilmente tentato a sua
volta di escludere lo Stato dai propri interessi. In tal modo la povertà si salda con
l’esclusione sociale.

Ora, se i poveri fossero casi singoli e isolati, si potrebbe pensare che si tratta di situazioni
fisiologiche se non addirittura di scelte libere di autoemarginazione. Ma quando la povertà
assume il carattere di fenomeno sociale le cui proporzioni raggiungono il 13-15% della
popolazione, si deve parlare di patologia conclamata. Nessun Governo, che abbia a cuore
la vita democratica, può onestamente disinteressarsene. Inoltre la presenza di una massa
così consistente di cittadini esclusi dalla vita sociale costituisce un elemento di pericoloso
contagio e di degrado, anche perché la partecipazione e l’esercizio della cittadinanza
attiva comportano già di per sé costi e sacrifici.
La Costituzione si è preoccupata di ricordare che “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere,
secondo le proprie possibilità e la propria scelta un‘attività o una funzione che concorra al
progresso materiale o spirituale della società” (Art. 4). L’affermazione costituisce un atto di
fiducia nell’uomo. Equivale a dire che nessun contributo può andar perduto, giacchè ogni
cittadino – ricco o povero – ha qualcosa di positivo da offrire al bene comune.
Riteniamo che un piano di lotta alla povertà debba preoccuparsi non soltanto di dare
adeguate risposte alle legittime attese di sviluppo personale dei poveri e ai loro bisogni
primari, ma anche di favorire una loro inclusione nel cammino di tutti.
L’emarginazione di un solo cittadino rende più povera l’intera società.

Scarica allegati:
Nozza_VII_ricercapoverta.pdf
Vecchiato_SintesiPiano.pdf