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Diario di maestra numerosa

Diario di maestra numerosa

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Sono ormai due mesi, dal 23 febbraio, che la nostra scuola ha chiuso i battenti, malgrado niente l’avesse fatto presagire fino al pomeriggio di domenica 22 quando ci è stato ufficialmente comunicato. Venerdì 21 febbraio la mia classe quinta ha fisicamente terminato, senza saperlo, il ciclo del suo percorso alla scuola primaria.
Il caso ha voluto che, neanche a farlo apposta, in quel lungo giorno di fortunato rientro fino alle 17,15, abbiamo messo in scena uno spettacolo teatrale che, a causa della successiva pandemia, è stato il nostro momento conclusivo e di saluto finale.
La Saga delle 27 opere di Giuseppe Verdi, frutto di un immenso lavoro durato due anni,
ha visto sul palco 26 bambini appassionati e spensierati in veste di Otello, Giovanna d’Arco, Aida, Ernani, Stiffelio, Oberto, Falstaff e tutti gli altri personaggi dei capolavori del grande maestro Giuseppe Verdi, per noi uno dei simboli di Parma, capitale della Cultura 2020.
Un successo strepitoso a sentire gli applausi, un’emozione indescrivibile a giudicare le intense espressioni sui volti dei genitori, un turbamento poco controllabile se penso alle mie gambe che tremavano. L’ultimissimo momento tutti insieme, maestri e bambini, concluso, oltretutto, con saluti affrettati vista la stanchezza accumulata e il calo di adrenalina del dopo spettacolo. Per noi di quinta niente è recuperabile al contrario di tutte le altre classi che, l’anno prossimo, bene o male, potranno ripartire da dove si sono fermate. Chissà se questo è un pensiero che sfiora anche chi decide aperture, chiusure, pause, riprese, date, recuperi, didattica a distanza. Chissà se chi non è personalmente coinvolto si rende conto di che enorme sofferenza stiamo vivendo noi che non ci ritroveremo più nella nostra aula, ora piena solo dei cartelloni colorati, dei sacchetti con le scarpette da ginnastica appesi agli attaccapanni, degli scaffali ricolmi di libri e quaderni che non abbiamo fatto in tempo a recuperare.
Alla prima settimana di chiusura, accolta tutto sommato con sollievo visto il grado di spossatezza post spettacolo, ha preso piede, settimana dopo settimana, un senso di inquietudine, di nostalgia e di paura per quello che ognuno di noi sapeva ma che, per una sorta di scaramanzia, non volevamo condividere: quasi sicuramente non ci saremmo rivisti, perlomeno non al prescuola delle 7,30, non per fare l’appello alle otto del mattino e sgridare i ritardatari, non in cerchio seduti per terra a passarci la statuina di una Lupa di mano in mano raccontandoci l’origine leggendaria di Roma, non in corridoio pronti per andare a mensa, non in giardino per i tornei sportivi di fine anno, non in pullman l’ultimo giorno di scuola in giugno per andare in gita all’Italia in miniatura dopo aver studiato le Regioni italiane per tutto l’anno. Sì, perché se è vero che ci vediamo tutti i giorni a distanza, è anche vero che davanti ad uno schermo non possiamo fare la fila prendendoci per mano, non riusciamo ad abbracciarci se vogliamo consolarci a vicenda, non possiamo chinarci ad allacciare le scarpe del compagno intanto che allacciamo le nostre, non possiamo distribuire libri e quaderni sui banchi degli altri.
Ognuno di noi, ora, è seduto alla sua postazione con i suoi di libri, con i suoi di quaderni, con i suoi fastidiosissimi auricolari, la porta chiusa per evitare i rumori famigliari, il microfono disattivato se ci sono troppi fischi di sottofondo. Uno schifo, per farla breve.
Ma c’è un particolare che non è cambiato, un elemento che mi dà la forza di continuare,
il giorno dopo, a ricollegarmi desiderosa di farlo, un fattore speciale che non mente mai:
i loro occhi. Sono gli occhi dei miei cuccioli, che cuccioli più non sono perché hanno undici anni e se ne andranno in prima media, ma che hanno ancora gli occhi di quando li ho presi per mano all’età media di cinque anni e mezzo. Sono occhi vispi, lucenti e innamorati. Sono occhi che mi parlano anche attraverso un rigidissimo schermo. So anche cosa mi dicono, lo so dal primo giorno di prima elementare anche quando i miei bambini non parlano con la bocca. Mi dicono: “Maestra, chiama me, io la so questa cosa!”. Mi dicono: ”Maestra, ci fai vedere bene quel quadro che si intravede sullo sfondo della tua parete?”. Mi dicono: “Maestra, sono stanco non ce la faccio più a stare chiuso qui dentro”. Mi dicono: “Maestra, mi mancate tanto, per favore, almeno aggiungi qualche videolezione”. Mi dicono: “Maestra, dopo facciamo anche una videochiamata Whatsapp solo io e te?” Mi dicono, senza parlare, tutto questo e molto, molto di più. Sono occhi a volte stanchi ma sempre felici. Sono occhi che sorridono perché i miei bambini sorridono sempre, sorridono a prescindere. Forse per una sorta di autodifesa, ma più probabilmente per una specie di progetto felicità che abbiamo portato avanti in questi cinque anni: allegria, condivisione, solidarietà, inclusione, accoglienza, musica, arte, creatività, cultura sono stati i nostri pilastri portanti. E felicità, sì, felicità.
L’abbiamo cercata in ogni nostra piccola azione quotidiana: anche un brutto voto può portare felicità se i tuoi compagni ti aiutano a studiare e la maestra rispiega per la decima volta; anche avere il mal di pancia può portare felicità quando un tuo compagno va alla macchinetta a prenderti il the caldo e la tua maestra ti prova la febbre tenendoti in braccio. Il coronavirus, con lettera minuscola perché non si merita la maiuscola, ha concluso tutto prima del tempo ma non l’ha fermato perché noi continuiamo e un gelido computer non elimina le nostre emozioni perché sono concrete nella loro astrattezza, vive più che mai anche più di prima perché se fino al 23 febbraio potevano essere considerate scontate, ora sono ricercate, ancora più volute, tangibili a distanza e assolutamente reali. Chissà se rientremo qualche giorno insieme, in fila, per mano entro giugno. Quello che so è che guarderò i miei bambini da lontano l’anno prossimo, nello stesso edificio, ma ai piani alti. Li scruterò dalla porta mentre attraversano il corridoio e salgono le scale, li cercherò durante l’intervallo senza farmi vedere, li aspetterò all’uscita per vederli andare via con i loro nuovi compagni.
E, dentro di me, so che saranno pronti e felici perché avranno tutto questo nel cuore, non certo un maledetto virus che la scuola ha sconfitto sul nascere.

di Barbara Mondelli