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Verso il 12 maggio

Verso il 12 maggio

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La lezione di un fiorire di incontri

Eugenia Roccella

Per anni ci hanno detto che la società civile doveva mobilitarsi e farsi sentire, come elemento fondamentale della dialettica democratica.
Oggi però molti sono sorpresi, in qualche caso persino allarmati, dalla manifestazione indetta dal Forum delle famiglie, insieme a tante altre associazioni del laicato cattolico, il 12 maggio a Roma, a San Giovanni.
Eppure non si potrebbe immaginare nulla di più unitario, aperto, inclusivo: un appuntamento per rimettere al centro delle politiche pubbliche la famiglia, cuore di ogni coesione sociale, nucleo di affetti fondati sulla continuità delle generazioni e sull’impegno di stabilità e di durata.
Questa semplice richiesta, dopo decenni di sostanziale disattenzione nei confronti della famiglia italiana, che è stata data per scontata e abbandonata un po’ troppo a se stessa, ha suscitato anche inattesi e violenti attacchi. Nell’idea di alcuni, i cattolici non fanno parte della società civile, e non sono legittimati a scendere in piazza; uscire dal silenzio implicherebbe un’indebita appropriazione di spazi riservati ad altri. Il tono di certe dichiarazioni e prese di posizione sembra sottintendere: chi vi ha dato il permesso? Tornate nelle chiese, o al massimo a piazza San Pietro, e non muovetevi di lì.
In queste settimane ho partecipato a decine di incontri, organizzati un po’ dappertutto, sui temi di cui si parlerà il 12 maggio. Incontri in cui era evidente una fortissima sintonia sui fatti elementari che uniscono gli esseri umani, aldilà di ogni distinzione tra laici e cattolici, destra e sinistra: l’esperienza di essere figli, di essere stati generati da un atto d’amore tra un uomo e una donna; la vocazione ad amare ed essere amati per sempre, e a giocare su questo tutto il proprio impegno; l’attaccamento a un patrimonio storico, simbolico, religioso, di esperienze umane che rischia di venire con troppa leggerezza manomesso o buttato via. Fa paura, per esempio, che l’Onu e l’Unione europea abbiano cancellato dal loro vocabolario le parole madre, padre, marito, moglie, famiglia; e che i singoli Paesi accolgano questa tendenza, come è accaduto in Scozia, dove le nuove linee guida per il servizio sanitario pubblico invitano a non parlare più ai bambini ricoverati di mamma e papà, ma del loro “tutor” o “guardian”.
Non mi sono mai imbattuta nell’arroganza moralista di chi crede di rappresentare la famiglia ideale, piuttosto ho trovato una grande consapevolezza di vivere un momento critico, in cui le donne non sono più libere di scegliere di avere figli (basta vedere il divario tra il desiderio di maternità e la sua concreta realizzazione), in cui i giovani faticano a crearsi una famiglia propria, in cui si consuma il presente e si ha difficoltà a progettare il futuro.
Ho incontrato famiglie numerose che non capiscono perché la loro capacità contributiva viene equiparata a quella di un single, mamme che vorrebbero il secondo o il terzo figlio ma non se lo possono permettere, come se fosse un lusso irraggiungibile; genitori che vedono messi in crisi i più basilari fondamenti educativi, che trovano difficoltà nel trasmettere ai figli l’idea che la vita non sia soltanto la felicità ora e qui, ma la faticosa costruzione della coscienza, e che sia necessaria la capacità di differire una gratificazione in vista di un bene duraturo.
Sono queste le preoccupazioni che porteremo in piazza, queste le ragioni di un senso comune diffuso che resiste, ma non può più accettare di essere ignorato e persino delegittimato.
Avvenire