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Uteri affittati, ritorno alla schiavitù

Uteri affittati, ritorno alla schiavitù

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Quando ho saputo la prima volta di essere incinta ero davvero una squinternata. Ancora più di adesso, dico subito per chi mi conosce bene, e se lo sta chiedendo. Ero ancora più squinternata, e di parecchio. Eppure sapere di avere una vita dentro di me ha cominciato immediatamente – non si vedeva ancora niente, niente era cambiato, apparentemente, ma io sapevo – un cammino di guarigione, un miracolo di allegria, consapevolezza, paura, responsabilità, terrore, coraggio, un cambiamento che io non controllavo in nessun modo, e che mi ha stupita per la sua irruenza. Uno sconvolgimento radicale di ogni cellula, e insieme la certezza inattesa di essere nel mezzo dell’avventura per la quale ero programmata da sempre.

Io, addirittura io, perfino io sono capace di fare questa cosa incredibile? – mi chiedevo incredula. E la responsabilità di cui mi sono sentita investita mi ha in un secondo fatto venire il desiderio di fare tutto il meglio per il mio corpo cioè per il mio bambino o bambina, di mangiare decentemente, di dormire abbastanza – fino ad allora dormire più di quattro ore a notte era contrario ai miei principi morali, una spregevole perdita di tempo – e tutto fatto con slancio ed entusiasmo, tranne rinunciare agli affettati, quello sì che era un sacrificio supremo (ogni volta che ho partorito, arrivata alla fine del travaglio ho supplicato mio marito di andarsene a comprarmi un panino al salame, col doppio risultato di non avere uomini in sala parto e di approntare il dovuto risarcimento della fatica che stavo per fare).

Eppure non ero, non credevo di essere votata alla maternità, non avevo mai creduto nella mistica del sacrificio femminile, tra l’altro ero un’atleta e non ho mai smesso di correre, magari un po’ più lenta, fino al giorno del parto. Non avevo aspettato quel momento sin da quando ero bambina, non avevo amato particolarmente le bambole, piuttosto a volte avevo cullato i fagiani o le beccacce morti portati a casa da mio padre, cacciatore, sperando di farli rinvenire, adoravo lo sport e i libri, non sapevo rompere un uovo senza farmelo colare tra le mani e l’unica cosa bella che la gravidanza mi sembrava prospettarmi era la possibilità di passare a una taglia di reggiseno degna di nota (cioè, diciamo la verità, di passare al reggiseno tout court). Questo per dire che non c’è bisogno di essere supermaterne, o molto femminili, o avere una particolare inclinazione all’accudimento di pargoli per sapere che avere un figlio tra le proprie viscere è una cosa che coinvolge e sconvolge ogni singola fibra del corpo di una donna.

Ora, mi chiedo, come possiamo fingere di dimenticare che pagare una donna perché porti una vita dentro di sé per nove mesi, farla partorire, e poi portarle via quel bambino, è una violenza inenarrabile, forse la peggiore che si possa infliggere a una donna? Come possono le istituzioni mondiali sedicenti paladine dei diritti umani non gridare allo scandalo davanti al ritorno alla schiavitù, alla compravendita di esseri umani, e addirittura ammonire l’Italia perché non permette questo commercio di vita? Come possiamo gridare contro lo sfruttamento della prostituzione e non contro l’utero in affitto, quando a essere venduta è solo un’altra parte dello stesso apparato del corpo? Come possiamo manifestare contro la violenza sulle donne, e non alzare un sopracciglio contro questa violenza suprema? Sono libere, ci dicono. Sono libere? Davvero qualcuno può pensare che ci sia una donna che faccia questa cosa liberamente, e non per necessità assoluta disperata di soldi? Come possiamo fingere di credere che una donna, anche se indiana, anche se del terzo quarto ultimo mondo, povera e lontanissima dalla nostra cultura, a cui si chieda di far crescere un bambino dentro di sé per poi lasciarlo andare via nel momento del parto, possa non soffrire in modo devastante, oserei dire letale, e possa accettare di farlo per la simpatia umana e la carità che prova verso due facoltosi sconosciuti? Che possa essere spinta da qualcos’altro che non sia il bisogno? Perché non ne trovano una in Occidente, benestante e realizzata? E le donne povere che si prestano dicono di farlo per garantire possibilità di riscatto ai figli che già hanno, solo questo pensiero permette loro di sopravvivere allo strappo di vedersi portare via un neonato appena partorito.

Possiamo dimenticarlo, certo, o pensarci solo distrattamente, perché i media ci raccontano queste storie dicendo solo la parte, per così dire, bella: vediamo i due genitori, che siano dello stesso sesso o meno, che tengono in braccio un piccolino e gli sorridono commossi. Cosa c’è di più bello di un grande che accoglie un bambino? – è la domanda che sembra suggerirci la copertina del settimanale patinato, il pezzo del tg, la paginata del quotidiano.

A parte la questione dei due genitori dello stesso sesso – ne abbiamo parlato, ne riparleremo – la bestialità è la stessa anche quando i committenti del prodotto bambino sono due genitori dello stesso sesso, che usano i soldi per soddisfare i loro desideri sfruttando il corpo di una donna nel bisogno. È solo una questione di soldi, ricordiamolo. A parte l’aumento della taglia di reggiseno per quelle piatte come me, non c’è niente che una farebbe gratis, in una gravidanza. Tutti i disagi, come minimo un po’ di mal di schiena, ritenzione idrica – che pizza – doloretti vari, difficoltà a dormire o a digerire, o proprio il minimo sindacale di un po’ di pelle rilassata, una donna li affronta con gioia non perché siano piacevoli in sé, ma solo perché sa che sta dando la vita al suo bambino, sa che sta cooperando a un miracolo, che sta cominciando a spendersi per quell’essere umano a cui sarà legata per l’eternità.

Con quel bambino, anche se l’ovulo e lo spermatozoo sono stati comprati da un catalogo in qualche parte lontana del mondo, la mamma, anche se non ha fornito il suo ovulo, mischia il sangue (qualche genio ha scritto che tra la mamma che presta l’utero e il bambino non c’è legame biologico!), le cellule, il nutrimento, il respiro, il battito del cuore per nove mesi. Il bambino si abitua a sentire quel cuore che batte, quella voce, quel respiro, e poi all’improvviso viene strappato via a quella mamma, per essere stretto e baciato e stropicciato da due perfetti estranei. Ci credo che il bambino che si è procurato Elton John ha pianto per due anni, e chissà gli altri di cui nessuno ci parlerà.

Deve essere stato lo stesso pianto accorato, disperato, inconsolabile dei bambini le cui mamme muoiono nel parto, come raccontano i medici. Però quei bambini un giorno sapranno che quella mamma che non li ha potuti stringere, consolare, abbracciare, attaccare al seno a ciucciare le prime gocce di colostro, non è una mamma che li ha venduti, ma al contrario è una mamma che è morta per loro, per farli nascere, e quindi il dolore, che sempre c’è, sarà pacificato, avrà una risposta. Un bambino che sa di essere stato amato fino all’ultima goccia di sangue dalla mamma potrà affrontare la sua assenza con la forza che viene dalla certezza di essere stati amati. Un bambino che sa di essere stato venduto come potrà fidarsi dell’amore, della gratuità, come potrà ascoltare quello che dice la sua carne, quella carne che ha cellule di una mamma che l’ha venduto?

E il dolore della mamma? Nessuno ne parla perché nessuno ritiene le donne indiane degne di essere intervistate, forse, né ascoltate. Ma qui non è questione di fede o di cultura: può forse una madre dimenticare il frutto delle sue viscere?, dice la Bibbia per parlare dell’amore più certo e indubitabile, del legame più forte e violento che ognuno di noi conosce (anche le cattive madri, anche quelle che impazziscono hanno viscere che fremono per i loro bambini). Forse è il caso di dare il nome a questo dolore che permettiamo e incoraggiamo con leggi pseudocivili, con falsi miti di progresso, per cui uomini politici possono orgogliosamente annunciare che presto avranno un bambino col loro compagno, senza che nessuno si preoccupi di tutto il dolore che il soddisfacimento di questo desiderio seminerà, seppure a pagamento.

C’è poi tutta la questione degli ovuli e dei semi venduti (basta con la parola donatore, qui è di vendita che si parla), e anche qui ogni fibra dell’umano si ribella – e non c’è bisogno di essere cattolici per inorridire, basta essere umani. Bambini che non sanno da dove vengono, quale storia hanno alle spalle, a chi somigliano, e quale parte invece del loro corredo è tutta nuova, e solo loro. Neanche la psichiatria è pronta a fare i conti con uomini e donne senza passato. Io vedo solo dolore, o peggio, vuoto, buio, assenza, indefinitezza, che è qualcosa di peggio del dolore. Persone che passeranno tutta la loro vita a farsi domande destinate a rimanere senza risposta, persone sole, senza passato. Che è anche peggio del dolore. È avere a che fare con il nulla, l’indefinitezza, l’angoscia totale e irrimediabile. Leviamo gli scudi del buon senso, difendiamo quello che è umano, il diritto di sapere da dove si viene, perché ognuno possa almeno decidere dove andare.

di Costanza Miriano