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Una società pedofobica

Una società pedofobica

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“Pedofobia” : assomiglia a un’altra parola, altrettanto sgradevole, quella pedofilia che significa “attrazione erotica verso i bambini”, ma questa volta esprime la paura (fobia, appunto) nei confronti dei bambini. Una paura di cui è malata la nostra società: ed è’ il titolo di un duro articolo di Carlo Bellieni, neonatologo, pubblicato su Tempi, 27 maggio, 2010
Rovente dibattito sul Journal of Medical Ethics: “Fare figli è solo irrazionale o anche immorale”? Fior di filosofi quali Hayry, Bennett o Holm disputavano di recente tra queste due sponde con argomenti ferrei: “Far figli non dà vantaggi socioeconomici, dunque è irrazionale” dicevano gli uni, e gli altri rispondevano: “Ma ogni essere umano è destinato a soffrire, dunque farlo nascere è esporre un essere al dolore, cioè è immorale”. Non è fanta-filosofia, dato che erano davvero convinti delle loro affermazioni in cui l’ipotesi che far figli è un fatto naturale come respirare non era neanche accennato; fatto triste, ma da cui capiamo che il bambino è il vero “straniero” nel mondo di oggi. Non se ne fanno più. Quelli che nascono sono dei sopravvissuti al vaglio della diagnosi prenatale genetica di cui l’Italia ha il record mondiale: sette ecografie di media per gravidanza (ne basterebbero 1-2) e oltre 100.000 amniocentesi l’anno. Non si vedono più. Scomparsi dalle strade, per vedersi tra loro li ingabbiamo in “feste” e invece di giocare “fanno sport”. Una volta erano i padroni dei vicoli, oggi sono animali domestici che escono solo se il genitore ha tempo di scarrozzarli. Bambini cui è vietato toccare tutto – sporcarsi è follia – e questo li priva delle esperienze basilari e della prima prevenzione da allergie e infezioni; che non si possono permettere di sapere cosa è un fratello, un cugino, che non vedono più allevare i bambini più piccoli (le mamme non ne fanno più e ne parlano con spavento) e dunque non imparano ad allevarli quando toccherà a loro. Sono tutto tranne che “bambini”: “intrusi” finché non decidiamo che possono nascere, poi “bambolotti” da mostrare alle amiche, quindi “juke-box” dei desideri infantili frustrati dei genitori e infine degli “elisir di eterna giovinezza”… per noi vecchi. Perché al mondo ha cittadinanza solo chi può far a meno degli altri, e i bambini (così come gli anziani e i malati) non possono, dunque sono invisibili, valgono solo nella misura in cui ci scimmiottano o ci fanno far bella figura. E le famiglie con più figli sono guardate con sospetto, perché obbligano a fare i conti con i termini gratuità, o imprevisto, che sono al bando nella società occidentale governata da chi – come l’ONU – raccomanda di non far figli per prevenire il surriscaldamento globale (British Medical Journal novembre 2009). I bambini sono dei sovversivi: la società non li vuole. Si chiama pedofobia quest’avversione all’idea stessa di bambino, che fa trionfare la politica del figlio unico proprio come in Cina, solo che lì è un obbligo di legge, qui è un obbligo “sociale”, ma l’effetto (e la tragedia) è lo stesso.
Nella società pedofobica il bambino si sente indesiderato: “Triste scoperta ragazzi, siamo facoltativi!”, scriveva Joaquin Lavado, e questa coscienza a detta di alcuni psichiatri genera una sorta di sindrome del sopravvissuto, per la quale si devono cercare sensazioni estreme per confermare di esser vivi e si sente un senso di colpa: io sono vivo, ma altri (mio fratello, mia sorella) non erano idonei e sono stati “respinti”… per far nascere me. Come dicono i sociologi, vivono di riflesso dei desideri dei genitori: in fondo, in maggioranza sono arrivati a nascere perché erano “graditi”. Questo non aiuta ad un equilibrato sviluppo affettivo, ma c’è dell’altro. I ragazzi hanno accesso a tutto il sesso del mondo, ma divieto assoluto non solo di fare ma anche di pensare a far figli; vivono in un mondo che impone una sessualità commerciale precoce, ma che anche impone di non fare famiglia, e li obbliga a giocare col loro corpo che non conoscono e li disturba (il corpo sta all’adolescente come una mosca al naso del gatto), castrati moralmente perché tutto impone di fare sesso ma assolutamente non fare figli. E nella società pedofobica gli adolescenti, che un tempo pensavano di trasgredire abortendo, la rivolta la fanno facendo figli: ed è il boom delle gravidanze teenager (nonostante i 6 milioni spesi dal governo inglese in prevenzione e preservativi gratis), a sfida degli adulti, come il gruppo di 17 amiche negli USA che hanno deciso di restare incinte (i padri sono anonimi) tutte insieme; ed è un fiorire nelle di programmi TV su questo tema, da Juno a “16 and pregnant” a “Vita segreta di una teenager americana”, segno di una sete di qualcosa che manca, di un equilibrio rotto.
In una società pedofobica fiorisce la pedofilia, follia figlia di uno sviluppo affettivo alterato e del vedere il bambino come un oggetto. Un tempo ce n’era meno forse perché lo sviluppo affettivo non veniva danneggiato dal sentirsi “programmati” e non “voluti”, dalla censura della sola idea di procreare e far famiglia. C’era meno pedofilia soprattutto perché non si vedeva il bambino come un oggetto, un “prodotto”, un bene di consumo, una “scelta”, un “diritto”. Se ci sono dei mascalzoni criminali, dei malati mentali che portano questo alle estreme conseguenze, che li usano, li violentano, li fotografano, che siano insegnanti, preti, registi o altro, c’è forse da stupirsi? E si deve solo far scattare le manette o ripensare al tipo di messaggio che respiriamo ogni giorno rispetto ai rapporti più umani, quelli verso la vita? Non ci stupisce la pedofilia in un mondo in cui i figli sono progettati in base al colore degli occhi, scartati prima di nascere se hanno minime anomalie magari curabili, cioè se tutti li guardiamo come guardiamo un’auto o un vestito nuovo. Scriveva nel 1963 Bob Dylan: “Avete sparso la peggior paura: paura di mettere figli al mondo. Poiché insidiate il mio figlio non nato e senza nome, voi non meritate il sangue che scorre nelle vostre vene”; la pedofilia è il miasma che scaturisce da questa paura, dal rifiuto di quello che non è programmabile, di un “tu” -il bambino- che per definizione non si possiede. Nasce da me ma non è mio.