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Quanto costa un figlio? Oltre 8 mila euro all’anno

Quanto costa un figlio? Oltre 8 mila euro all’anno

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I dati Istat confermano il calo delle nascite: 12 mila nati in meno ogni mese del 2016. L’allarme dell’Associazione Famiglie Numerose, che ha calcolato il costo annuale medio di un figlio: «Tasse e tariffe ci penalizzano». Eppure l’aumento della natalità aiuterebbe anche l’economia e il Pil.

 

Dimenticate il baby boom. Mezzo secolo dopo gli anni d’oro delle nascite – il record fu di 1 milione e 35 mila culle piene nel 1964- l’Italia si riscopre in piena crisi demografica, con le famiglie sempre più in difficoltà e i figli diventati ormai un lusso. Il quadro fornito dall’Istat è impietoso: nel 2016 sono stati iscritti all’anagrafe 473.438 nuovi nati, oltre 12 mila in meno in 12 mesi. «Dal 1961 al 2017 c’è stata una riduzione di circa un terzo della popolazione sotto i 15 anni. I bambini hanno sempre meno fratelli e sorelle, vivono in una società che continua a invecchiare e devono fare i conti con un crescente vuoto relazionale», commenta Raffaela Milano, direttrice dei Programmi Italia-Europa dell’organizzazione internazionale Save the Children.

Le famiglie numerose sono sempre più rare: quelle con almeno 4 figli negli anni Sessanta erano un milione, adesso sono meno di 130 mila. Un quadro drammatico che rischia di avere pesanti conseguenze nei prossimi anni sulla situazione socio-economica del Paese. «Quando i figli del baby-boom andranno in pensione, si dimezzeranno i lavoratori attivi, a fronte di un raddoppio dei pensionati. I sistemi pensionistici, ma soprattutto sanitari diventeranno insostenibili, a meno che non vengano fortemente ridotte le prestazioni», avverte l’Associazione nazionale famiglie numerose nello studio «Figli, giovani e famiglia», citando il report «The silver economy, global ageing primer» redatto dagli analisti di Bank of America Merryl Lynch.

Un circolo vizioso: la crisi economica fa vacillare l’istituzione della famiglia e rallenta le nascite. Il calo delle nascite rallenta ulteriormente l’economia. Ogni nuovo nato, secondo le stime, vale 8.512 mila euro all’anno di consumi imputabili al Pil, cifra che sale a circa 35 mila euro conteggiando l’indotto. L’aumento della natalità, secondo gli esperti di demografia, può essere dunque una leva per rilanciare il Prodotto interno lordo. Molte coppie però rinunciano a fare figli o si fermano al primogenito per paura di non essere in grado di fronteggiare le spese necessarie quando il nucleo si allarga.

«In Italia mancano politiche concrete ed efficaci di sostegno alla famiglia», accusa Andrea Bernardini, portavoce dell’Associazione nazionale famiglie numerose (quelle con almeno 4 figli). E snocciola un lungo elenco di esempi di come lo Stato trascuri le esigenze e i problemi dei nuclei numerosi: le risorse destinate alla famiglie ammontano all’1,3% del Pil, contro il 2,1% della media Ue 27; la fiscalità penalizza le famiglie numerose perché di fatto tiene conto del principio dell’equità verticale (cioè le tasse sono modulate sul reddito individuale) ma disattende completamente l’equità orizzontale (non si tiene conto di quante persone vivono nel nucleo familiare); le addizionali locali sono calcolate sul reddito lordo, senza calcolare i carichi familiari; il sistema di tariffazione di gas e luce – per educare al risparmio – penalizza chi consuma di più, senza considerare però il numero di componenti del nucleo familiare.

In generale, sostiene l’Associazione nazionale famiglie numerose, in Italia dalle grandi tematiche alle piccole questioni pratiche non c’è attenzione per i nuclei con molti figli e basta calarsi nella quotidianità per capire come i problemi siano tantissimi: l’Isee, l’indicatore che determina la ricchezza reale delle famiglie per individuare le fasce di reddito su cui calcolare il costo di molti servizi pubblici, «assegna un peso molto limitato ai figli, in quanto vengono considerate le sole spese di mantenimento (quelli essenziali alla sopravvivenza: mangiare e dormire), ignorando completamente quelle di accrescimento (studio, abbigliamento, tempo libero)». Il costo complessivo medio di mantenimento di un figlio supera gli 8 mila euro all’anno.

E al crescere del numero dei figli, anziché realizzarsi le cosiddette «economie di scala», le spese si amplificano perché da un lato la logistica diventa complessa e spesso richiede l’aiuto di persone esterne (baby sitter o altro), ma al tempo stesso le agevolazioni (scontistica o altro) non coprono l’aumento dei costi se non in minima parte. Basti pensare all’istruzione: avere tre figli che frequentano contemporaneamente scuole materne o elementari nel comune di Roma per una famiglia con reddito medio costa di sola retta della mensa da 150 a 270 euro al mese, a cui si aggiungono le attività a pagamento ma in orario scolastico (teatro, inglese, attività motorie, visite guidate) che incidono mediamente per almeno 15-20 euro al mese a bambino.

Se poi entrambi i genitori lavorano, è inevitabile assumere una baby sitter o una colf. E i costi decollano prima ancora di occuparsi delle spese per abbigliamento, tempo libero, ecc. Dietro il calo delle nascite c’è anche la crisi dell’occupazione. Come aveva previsto il giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Nuove brigate rosse nel 2002, «se non si introducono strumenti per accelerare l’ingresso dei giovani sul lavoro, si avranno pesanti ripercussioni anche sul tessuto sociale».

Erano gli anni Novanta, quando diceva queste parole. Ed è esattamente ciò che sta succedendo. Con la disoccupazione giovanile intorno al 35% e la precarietà che domina i nuovi contratti, infatti, è sempre più difficile mettere famiglia. Per questo, commenta Raffaela Milano, «è indispensabile e inderogabile l’avvio di un piano strutturale di sostegno alla genitorialità, mettendo a punto una rete di cura per l’infanzia 0-6 anni del quale il nostro paese ha enormemente bisogno, definendo strumenti di effettiva conciliazione di tempi di vita e di lavoro per le mamme e sostenendo le famiglie che vivono in condizioni di povertà».

Fonte: corriere.itdi Paolo Foschi