Articolo del nostro associato, nonché vaticanista per la Rai, Aldo Maria Valli sul “family day”
La famiglia non è un randello
Siccome ventitré anni fa ebbi la strana idea di unirmi in matrimonio (a quei tempi si diceva ancora così) con una persona di sesso femminile (ai nostri tempi bisogna precisare) che è tuttora la mia prima e unica moglie, e con quella stessa persona ebbi l’idea ancora più strana di mettere al mondo sei figli, penso che non sembrerò esagerato se mi permetto di dire che io il family day lo celebro tutti i giorni, per 365 giorni all’anno. Non mi lamento, è una bella esperienza e rifarei tutto. Proprio per questo però mi permetto anche di sorridere per le iniziative e le levate di scudi che di tanto in tanto portano alla ribalta la q u e s t i o n e della famiglia e della sua difesa.
Questo è un paese nel quale si ama tanto parlare senza approdare a nulla. E spesso si parla sotto l’influsso di spinte emotive che di certo non aiutano la concretezza. Così anche la famiglia è diventata una bandiera ideologica, da innalzare come vessillo o da gettare in faccia agli avversari politici, ma senza vero costrutto. Anzi, con il rischio di ottenere effetti collaterali contrari a quelli voluti.
Personalmente, se avessi voglia e tempo di scendere in piazza, non chiederei molto. In quanto padre di numerosa prole mi piacerebbe, per esempio, che il fisco si rendesse conto della mia situazione e provvedesse di conseguenza. Essendo lavoratore dipendente, pago le tasse fino all’ultimo centesimo. Giusto, giustissimo. Ma visto che in casa sono anche l’unico percettore di reddito, perché il fisco si ostina a considerare solo le mie entrate senza tener conto del numero di persone che vivono grazie al suddetto reddito? Si dice tanto che il nostro è un paese di vecchi e che bisognerebbe fare qualcosa per ringiovanirlo.
Poi però quando una mamma e un papà hanno la curiosa idea di mettere su una famiglia extralarge, e la mamma sceglie di dedicarsi interamente ai figli, non solo i due poveretti non ottengono alcuna agevolazione, ma vengono guardati come animali dall’aspetto bizzarro, senz’altro simpatici ma non meritevoli di attenzione perché sicuramente destinati a rapida estinzione.
Ho detto del fisco, ma potrei parlare anche della scuola. La libertà di educazione è una gran bella cosa, ma per una famiglia come la mia è praticamente un tabù. Non ho mai potuto permettermi di iscrivere uno dei miei figli a una scuola elementare, media o superiore non statale. Anche una sola retta avrebbe mandato i nostri precari conti economici in rosso. In proposito ricordo ancora l’espressione, piena di pietà ma anche di un vago sarcasmo, dipinta sul volto di una gentile funzionaria municipale alla quale mi rivolsi anni fa per iscrivere la mia terza figlia a una scuola materna del mio comune di residenza.
«Caro signore – mi disse – non so proprio come aiutarla. Il suo reddito è troppo alto perché sua figlia possa entrare in graduatoria, e poi vedo che sua moglie fa la casalinga.
Se lavorasse, otterrebbe qualche punto in più, ma così non c’è niente da fare ». A nulla valse fare presente che mia moglie era in attesa di due gemelle e che, a fronte di un solo reddito, il numero di persone da sfamare, vestire, curare e istruire sarebbe presto balzato da cinque a sette. Uscii da quell’ufficio in preda a una sensazione singolare.
Non sapevo se considerarmi fortunato (per via del reddito “troppo alto”) o preso in giro. Mi sarebbe piaciuto replicare che se mia moglie avesse avuto un lavoro il nostro reddito sarebbe stato ancora più alto, ma lasciai perdere. L’unica cosa che afferrai è che nella nostra società credere nella vita e avere una moglie che decide di dedicarsi a tempo pieno alla formazione dei figli è, di fatto, una colpa. Fu una scuola di suore a venirci incontro con un prezzo stracciato («Se non aiutiamo voi, chi dobbiamo aiutare?» disse la reverenda madre commossa, come se avesse di fronte una specie di versione aggiornata della sacra famiglia).
Che cos’altro mi piacerebbe? Per esempio prendere un pulmino nuovo al posto di quello che ho da dieci anni. Per una famiglia come la mia una macchina normale non serve, ci vuole un veicolo commerciale. Dieci anni fa ne comperai uno di quelli che usano le imprese edili per portare in giro i muratori: motore potente, nove posti, ampio spazio per gli attrezzi (pardon, per i bagagli), consumi contenuti e nessunissimo fronzolo (quando il concessionario osò propormi la moquette gli chiesi di fare mente locale sul profumo della moquette intrisa di vomito infantile e lui disse subito ok, niente moquette). Di recente, su istigazione dell’Associazione famiglie numerose, una grande marca automobilistica italiana (si dice sempre così) ha dato la possibilità di acquistare una famigliare con lo sconto, ma la famigliare in questione per una famiglia come la mia è comunque troppo piccola, pazienza. E poi il pulmino permette di fare esperienze interessanti.
Per esempio, quando vado a fare gasolio con il mio veicolo commerciale carico di giovani vite, mi capita qualche volta che il benzinaio mi chieda per quale congregazione religiosa lavoro.
L’elenco dei miei sogni di padre di famiglia numerosa potrebbe essere lungo. Mi piacerebbe, tanto per dire, sapere perché quando pago la tassa sulla spazzatura ogni componente della famiglia vale uno e quando invece pago le tasse universitarie il calcolo è basato su un misterioso “indice della situazione economica equivalente” che considera ogni figlio, ai fini della detrazione dall’imponibile, pari a un valore dello 0,35: forse che ogni nostro figlio sporca per uno ma mangia, si veste, respira e studia per lo 0,35? Mi piacerebbe anche poter visitare musei e pinacoteche contando su qualche sconticino (ci sono le agevolazioni per gli anziani, perché non prevederne anche per le famiglie numerose?) e lo stesso discorso vale per aerei e treni. Ma non sto a farla lunga. Anche perché ogni volta che accenno a questi problemi mi imbatto sempre in qualche mente eccelsa che osserva: «Scusate, ma mica ve l’ha ordinato il dottore di avere tanti figli!».
Quindi, silenzio e avanti. Quanto al family day, o comunque lo si voglia chiamare, auguro all’iniziativa il più ampio successo anche se so già che ascoltare certi discorsi mi farà venire l’orticaria. C’è in giro troppa gente che ha deciso di usare la famiglia come un’arma per aggredire. A questa operazione non mi presto. A me la famiglia piace viverla, non brandirla a mo’ di randello. Non ho nulla contro i pacs, i dico e tutte le altre forme di convivenza. Il problema non è ridurre i diritti, le tutele e le forme di garanzia sociale degli altri, ma estenderle il più possibile a tutti. Invece di rompere le scatole a chi decide di convivere, perché non raccontiamo quanto è bello sposarsi?
Non è per caso che certi discorsi tutti in negativo nascono dal non avere niente da dire in positivo?
Trovo poi insopportabili certe prediche sulla famiglia che arrivano da chi, in materia, ha un retroterra un tantino contraddittorio rispetto ai valori proclamati.
Se la verdura non costasse così tanto (e io ne so qualcosa) penso che il modo più corretto per replicare agli inni sulla famiglia monogamica e sul matrimonio cristiano innalzati da esimi pluridivorziati e conviventi incalliti sarebbe uno solo: una bella raffica di ortaggi. Buon family day a tutti!
Da
“Europa”, 22 marzo 2007