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ELUANA SE NE VA E CON LEI RAGIONE E DIRITTO

ELUANA SE NE VA E CON LEI RAGIONE E DIRITTO

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Quando l’anno scorso arrivò a termine il caso di Piergiorgio Welby, che aveva ripetutamente chiesto, e alla fine ottenuto, che gli fosse staccato il respiratore artificiale che lo teneva in vita nel suo letto di malato di Sclerosi laterale amiotrofica, qualcuno esultò come se si fosse davanti a una grande conquista civile. Qualcun altro, più correttamente, scrisse che in Italia era stata reintrodotta la pena di morte, sia pure nella sola fattispecie della condanna a morte su richiesta dell’interessato.

A partire da mercoledì scorso, con il caso di Eluana Englaro, in Italia siamo un passettino più avanti verso la Endlosung (soluzione finale) del dibattito sull’eutanasia; da mercoledì scorso abbiamo anche la condanna a morte di una persona che non ha chiesto nessuna morte, sulla base di richiesta di terzi e sulla base dell’affermazione di terzi secondo cui “se potesse lo chiederebbe”.

Non so quanti, di quelli che in queste ore acclamano al trionfo del diritto e della ragione, abbiano focalizzato il fatto che il trionfo in questione consiste nel condannare a morte per fame e sete una persona sulla cui supposta attuale sofferenza non abbiamo il minimo indizio, che ogni mattina apre gli occhi e ogni sera li chiude. Non so quanti dei festanti di cui sopra si rendono conto che la prossima volta che si porrà un caso analogo, si dirà che in fondo limitarsi a “staccare la spina” in nome della dignità umana, aspettando poi che “la natura faccia il suo corso” (come se ci fosse alcunché di naturale nel morire di fame e di sete), non è in fin dei conti molto umano, E QUINDI chiederanno e otterranno che invece si usi una pietosa iniezione, con il che si passerà da una teorica eutanasia passiva in una vera e propria eutanasia attiva, con l’iniezione mortale stile Aktion T4 (non sapete cos’è?, documentatevi!) .

Naturalmente le reazioni comuni, anche tra persone che quando ragionano non ragionano male, sono deformate dalla fortissima impronta emotiva che i casi come questo si portano dietro, ed è purtroppo normale che, anche persone usualmente intelligenti, prese nella trappola emotiva invece di domandarsi cosa e giusto e cosa è sbagliato, e ancora di più dove si va, prendendo una strada o un’altra, si fanno domande meno razionali del tipo: cosa farei io? Cosa vorrei facessero a me?

Purtroppo un analisi “con la pancia” è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in momenti come questo, quindi vediamo di chiedere a tutti i lettori di queste righe di verificare, ancora una volta, se la ragione e il diritto vengono rispettati, e se si stia ragionando o meno con il cervello acceso. Vediamo quindi di smontare una per una le sciocchezze che i megafoni dell’opinione corrente ci vanno in questi giorni ripetendo.

1) Quella non è vita, ma solo uno stato vegetivo permanente, senza speranza. Non ci siamo, proviamo a ragionare; “stato vegetativo” è una diagnosi, ed è senz’altro corretta, mentre “permanente” è una prognosi, una delle prognosi possibili, incerta e inverificabile come tutte le prognosi. Il concetto di “senza speranza”, poi, è una pura invasione della metafisica in un ambito che si vorrebbe scientifico: chi non ha speranza? La speranza di chi deve aver rilievo quando si tratta della vita o della morte di un essere umano? Prendete tutte le ultime grandi scoperte mediche dell’ultimo secolo, dalla pennicillina ai farmaci che inibiscono la trascrittasi inversa nell’AIDS, e poi datemi l’elenco di tutti quelli che , prima della scoperta, “ci speravano”.

2) Era la famiglia a chiederlo, e hanno portato testimonianze del fatto che lei stessa aveva detto che non voleva fare una vita così. Altro punto preoccupante. Capisco come tutti ci immedesimiamo nel dolore personale del padre di questa ragazza, e sentiamo il desiderio di lenire il suo dolore (ma sarà lenito davvero da una tomba e una bara?), ma non a prezzo di buttare a mare ragione e diritto. Innanzitutto il diritto di vita e di morte dei genitori sui figli è stato abolito da un pezzo, e secondo poi, scusate la brutalità ma vorrei farvi un esempio. Immaginate che un vostro vecchio amico, o un lontano zio, vi regali prima di morire la sua vecchia bicicletta senza un pedale, magari davanti a testimoni, e che voi la teniate carissima come il ricordo che avete di lui. Immaginate a questo punto che arrivi il figlio, il nipote, il biscugino, insomma l’erede del de cuius e vi chieda cosa pensate di fare con la SUA bicicletta senza un pedale, e vi intimi la restituzione. Pensate che in mancanza di un testamento scritto o di un contratto altrettanto scritto abbiate la minima speranza di vincere un giudizio portando testimoni del fatto che “lui voleva così”? E in base a che principio quel che è impensabile quando si tratta della bicicletta senza pedale deve diventare la regola quando si tratta della vita e della morte di una persona umana?

3) Quella non era vita, la vita non è solo respirare, digerire e far batter il cuore, l’uomo è prima di tutto spirito. Altro argomento di grande interesse, molto elevato e molto conseguente, anche. E’ come se uno dicesse: dato che indiscutibilmente l’uomo non vive di solo pane, quelli che vivono solo con un panino al giorno non sono uomini. E quanto al “questa non è una vita degna di essere vissuta”, di grazia, chi lo stabilisce, e in base a che? Chi ha posto i parametri di quale vita è degna e quale non lo è? A distinguere uno che respira e mangia da un cadavere ci riesco, ma chi decide chi, tra quelli che respirano, è “degno” di respirare, e chi deve essere fatto fuori nel suo stesso interesse, e in quello molto maggiore di non disturbare la vita e la vista di noi “sani” e “normali”?

Permettete mi venga il dubbio che domani la stessa entità decida decida che “non è vita” “non ha dignità” o “non vale la pena di essere vissuta” la vita dei matti, degli omosessuali, dei tifosi del Genoa, dei castani di capelli? E permettete che mi agiti se ci mettiamo su questa strada?

4) Oggi la medicina permette di far sopravvivere all’infinito chiunque, ci deve essere il diritto di rifiutare le cure, e se non si è in condizioni di esprimerlo, qualcuno deve impedire l’accanimento terapeutico. E rieccoci con l’idea della libertà di cura e di non cura. E ancora una volta bisogna mettere i puntini sulle i. Si ha senz’altro il diritto di rifiutare qualunque cura senza doverne rendere conto al giudice terreno (a quello ultraterreno è altro discorso), e entro certi e ben definiti limiti questo diritto può anche essere esercitato da un altro per mio conto quando la procedura medica, per dirla con il Catechismo della Chiesa Cattolica, è “onerosa, pericolosa, straordinaria o sproporzionata rispetto ai risultati attesi (2278) ” ma stiamo sempre parlando di cure. Come si fa a considerare “cura” il nutrire, dissetare, lavare e scaldare una persona?
Questa non è cura, questo è il minimo di attenzione che si deve a un essere umano. Tutte le cure possono essere sospese, se diventano un accanimento terapeutico da cui non si può ragionevolmente, statisticamente, aspettare alcun serio miglioramento del vivere per il paziente, ma quel bicchier d’acqua, senza il quale Eluana Englaro presto morirà, come si fa a definirlo terapia?


La rubrica va in ferie qualche settimana insieme al suo redattore, Dio voglia che al ritorno io abbia energie e sprint sufficiente per vivere, poi pensare, poi scrivere, poi inviare.

Se questo lavoro non vi dispiace, pregate per chi lo ha fatto.

Buone vacanze a tutti

L.