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DIETRO IL PROTOCOLLO DI KIOTO, IL MITO DELLA SOVRAPPOPOLAZIONE?

DIETRO IL PROTOCOLLO DI KIOTO, IL MITO DELLA SOVRAPPOPOLAZIONE?

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Pubblichiamo il contributo di Luigi Conti, nostro assciato e collaboratore, attento osservatore dei fenomeni culturali del nostro tempo

Rivedendo, l’altra sera in televisione, l’ennesimo passaggio dell’appassionante “The day after tomorrow” con cui il magniloquente Roland Emmerich riuscì nel 2004 a rinverdire i fasti di “Indipendence Day”, non ho potuto evitare di ripensare a tutta la storia del protocollo di Kyoto, citato in questo film così pieno di cattivi politici (contrari al protocollo) e di eroici scienziati tesi a salvare il mondo coi lori studi e modelli previsionali di futurologia metereologica.

Non ho potuto fare a meno di pensare al pessimo Al Gore (che peraltro era in Italia la scorsa settimana a pontificare sulla TV del futuro) l’unico candidato presidente degli States a memoria d’uomo che sia arrivato alle votazioni con 10 punti di vantaggio nei sondaggi sul signor nessuno candidato dal partito rivale e che ciononostante sia riuscito a perdere, ma anche l’unico politico ad aver avuto un incarico importante (vicepresidente degli USA) , a non aver fatto nulla mentre era in carica e ad aver visto il premio Nobel per la pace (e il premio Oscar per soprammercato) per la sua attività fatta quando si è riciclato dopo il suo fiasco politico, premio condiviso con l’altrettanto ineffabile IPCC (Intergovernamental Panel for Climate Changes – Gruppo scientifico intergovernativo per lo studio dei cambiamenti climatici) di cui riparleremo.

Ciò sia detto senza tutto il rispetto per il Nobel per la pace, assegnato a eroi come Madre Teresa, Alber Schweitzer o Martin Luther King insieme a mezzi truffatori come il vietnamita Le Duc Tho o Rigoberta Menchù, un elenco di nomi in cui Mr Gore va a fare compagnia a personaggi del calibro di Yasser Arafat , Menachem Begin o Mihail Gorbaciov , nonché suoi compatrioti tipo Teodoro Roosvelt, Jimmy Carter o Henry Kissinger, uomini tutti sul cui eroico pacifismo vi risparmio ricordi e commenti.

La notizia del giorno (leggere qui) è che contro le tesi del pluripremiato lavoro di Mr Gore e dell’IPCC è stata presentata la scorsa settimana nell’Oregon una petizione con 31.000 firme.
Politicanti del partito repubblicano rancorosi contro l’ex vice vice premier democratico?
Boscaioli delle montagne rocciose impermeabili al sofisticato verbo della scienza?
Industriali avidi ansiosi di continuare a far soldi a spese della salute pubblica e dell’ambiente?
No. I firmatari sono 31.000 docenti universitari, americani e non, che chiedono al governo americano di NON ratificare il protocollo di Kyoto, in quanto “dannoso per l’ambiente, per l’economia e per lo sviluppo”.

Della questione si stanno occupando anche organizzazioni evangeliche come il Family Research Council e il Focus on the Family, che contano di raccogliere un milione di firme per dire che “i cristiani d’America non credono ai catastrofismi sul clima”.

Ci sono infatti una serie di cose che i professionisti della catastrofe, tanto presi di mira in quello stesso 2004 dal grande Michael Chrichton (“Stato di Paura”) non ci vogliono dire:

1) sappiamo pochissimo sui meccanismi che hanno provocato i grandi cambiamenti climatici del passato, e ciononostante vantiamo infallibilità nel prevedere quelli futuri

2) i modelli usati nell’ultimi decennio NON si sono rivelati affidabili nelle previsioni a trenta settimane di distanza, figuriamoci a trenta anni

3) L’effettiva influenza sul riscaldamento globale delle emissioni di anidride carbonica è marginale, quella delle attività industriali che l’accordo di Tokio ci chiede di terremotare è addirittura minima

4) Nel mondo si spendono molti più soldi per la ricerca sul clima che per quella sul cancro

5) I non pochi accademici, anche di grandissimo prestigio, che hanno espresso dubbi sulle metodiche e sull’ideologia dell’IPCC ne sono stati rapidamente e silenziosamente allontanati.

6) nei Paesi sviluppati tutti gli indicatori ambientali sono migliorati in questi decenni, grazie alla tecnologia e a una maggiore sensibilità: basti pensare che in una decina d’anni le emissioni inquinanti di un’automobile sono diminuite di sette volte.

Insomma l’idea che per salvare il pianeta si debba fermare lo sviluppo in generale, e quello dei paesi poveri in particolare, è contraddetta dai dati di fatto ambientali che fino ad oggi possediamo.

Dietro questi appelli c’è in realtà un’ideologia ben precisa, secondo la quale il mondo sarebbe perfetto e felice se l’uomo non ci fosse, quindi noi uomini, su questo mondo siamo comunque un male e siamo sempre troppi, che il numero effettivo mostri di crescere o di diminuire non fa differenza.

Ne riparleremo.
Luigi Conti