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CONTRO LA DOLCE MORTE DELLA FAMIGLIA

CONTRO LA DOLCE MORTE DELLA FAMIGLIA

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La questione della famiglia rappresenta un nodo centrale per ridare slancio alla crescita del Paese e migliorare la qualità della vita sociale: per realizzare questi obiettivi l’aumento sostanziale, anche se graduale, della quantità di risorse destinate alla famiglia è una condizione necessaria, ma che per diventare sufficiente richiede anche un’attenta qualificazione della spesa e degli interventi, avendo come punto di paragone il così efficiente modello francese. I figli e la famiglia sono un bene comune non dissimile dalle grandi risorse naturali come l’acqua, l’aria e l’oceano, e come queste risorse hanno sia un volto privato che uno pubblico: ma un problema ben noto dei beni comuni, come i pesci nell’oceano, è il loro eccessivo sfruttamento economico, a volte fino all’estinzione, cioè il medesimo pericolo che oggi corrono la famiglia e i figli.
Dal punto di vista della crescita la questione centrale è quella dell’allungamento della vita media, dei problemi assistenziali legati al numero crescente dei «grandi» anziani, a cui si accompagna un crollo della natalità nel corso degli ultimi 30 anni e quindi della quota di popolazione giovanile. Non è casuale che le economie oggi più dinamiche, come gli Stati Uniti, l’India, la Cina, ma anche la Francia, siano anche Paesi giovani. Così come era giovane e ambiziosa sul futuro proprio e dei propri figli l’Italia che realizzò il grande miracolo economico del secondo dopoguerra. Ma è proprio sul piano delle aspettative per sé e per i propri figli che la famiglia oggi è penalizzata.

In Italia la popolazione in età di lavoro, da 20 a 65 anni, era di 36,6 milioni nel 2001 (immigrati inclusi), 36,1 milioni nel 2007 e secondo le proiezioni Istat è prevista in graduale diminuzione a 34,8 milioni nel 2020 e in ulteriore diminuzione negli anni successivi. La crescita del prodotto potenziale dipende dai margini di crescita, sempre più contenuti, dell’immigrazione; dall’aumento della partecipazione al lavoro delle donne, soprattutto al Sud; dall’aumento dell’età pensionabile e, infine e soprattutto, da un aumento della produttività del lavoro. La via più virtuosa è, insieme alla produttività, la fuoriuscita dall’attuale trappola della natalità, anche se gli effetti si vedranno solo fra vent’anni. Il numero di figli per donna è stato di 1,34 nel 2007, in lieve diminuzione rispetto a 1,35 nel 2006: nel 2005 il tasso di fecondità per le donne italiane è stato tuttavia ancora più basso e cioè pari a 1,24 figli, mentre è invece pari al doppio, 2,41 figli, per le donne straniere. In Italia tuttavia il numero ideale di figli desiderati per se stessi è invece maggiore e pari a 2,1 il che, se realizzato, consentirebbe una popolazione stazionaria, ma con una struttura demografica molto più equilibrata.
Di conseguenza il Paese accumula ogni anno una indesiderata carenza di circa 300 mila nuovi nati, che misura la mancanza di libertà fra figli desiderati e figli effettivi, ma che grazie alla «voce» del mercato viene compensato da un flusso migratorio del medesimo ordine di grandezza: la questione è se e come tale dinamica sia sostenibile nel lungo termine. Infatti il saldo naturale della popolazione italiana nel frattempo diminuisce, essendo i nuovi nati da genitori stranieri circa il 10% del totale, mentre la popolazione residente invece aumenta sensibilmente, quasi a 60 milioni di abitanti, grazie agli immigrati. Sul piano della qualità della spesa per la protezione sociale è stato più volte osservata l’inefficienza dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei: la percentuale di persone a rischio di povertà, prima e dopo i trasferimenti sociali, diminuisce di 4 punti in Italia, 12 punti in Francia e 13 punti in Germania. Le spiegazioni possibili sono molteplici. Abbiamo però potuto osservare che esiste una forte correlazione positiva fra efficacia della spesa e maggiore incidenza della quota di risorse dedicate a famiglia, bambini e disabili. Questo quindi è il primo passo nella giusta direzione di una miglior qualità della vita sociale.
Il secondo passo è quello di riconoscere l’ovvio, è cioè che la fondamentale unità decisionale, in ogni società, è la famiglia: dall’acquisto dei beni alimentari, alle decisioni che riguardano l’acquisto dell’auto e ancor più dell’abitazione. Ma se ciò è vero ne consegue che il riferimento centrale del sistema fiscale deve diventare il reddito familiare, anziché quelle individuale. In realtà il reddito familiare cacciato dalla porta rientra dalla finestra con il meccanismo dell’Isee, ma solo per negare l’accesso a servizi come le scuole materne o imporre tariffe più alte.
È invece necessario introdurre in modo generalizzato una carta dei servizi familiari, non diversamente dalla tessera sanitaria, che fornisca l’accesso a prezzi più vantaggiosi ai trasporti e ai servizi di pubblica utilità. In una società moderna la politica dei redditi deve camminare su due gambe: la prima è quella dei salari, che devono essere agganciati alla dinamica della produttività potenziale del sistema, oltre che al livello del costo della vita, mentre la seconda è quella di una politica familiare adeguata ai tempi attuali, in cui la sicurezza economica è diventata un privilegio delle coppie senza figli, in cui entrambi lavorano. Ma questa genere di sicurezza è anche la strada per l’eutanasia dolce del Paese.
Il terzo passo è quello di individuare con chiarezza gli ulteriori obiettivi che si intende perseguire a favore della famiglia, associando ad ogni obiettivo lo strumento più appropriato. Gli obiettivi più immediati sono i seguenti: l’equità fiscale, la promozione della famiglia e dei figli come bene comune, una politica specifica mirata sui molto giovani, cioè i bambini.
Il primo obiettivo, quello dell’equità orizzontale, può essere realizzato con differenti strumenti: poiché – a nostro parere – la semplicità fiscale è un valore di democrazia, in questo senso il quoziente familiare rappresenta forse lo strumento più appropriato per realizzare l’equità orizzontale fra le famiglie. Bisogna tuttavia essere del tutto consapevoli di cosa ciò significhi: l’allineamento dei livelli retributivi fra uomini e donne che fanno lo stesso lavoro rappresenta un costo che misura la discriminazione fra uomini e donne, laddove ancora esiste, così come il drenaggio fiscale è ingiusto perché impone più tasse solo come conseguenza di una maggiore inflazione. Il quoziente familiare applicato all’Italia significa semplicemente l’eliminazione di una discriminazione a danno delle famiglie e l’associata riduzione della pressione fiscale, impropriamente etichettata come un costo per la finanza pubblica, fornisce solo una misura dell’attuale discriminazione, legata al fatto che il sistema fiscale è di tipo progressivo.
Il quoziente familiare elimina cioè la progressività dell’imposta che si associa a famiglie con il medesimo reddito, ma con un diverso numero di componenti: il problema non esisterebbe se l’imposta sulle persone fisiche fosse del tutto proporzionale anziché progressiva. Il quoziente familiare è perciò una politica per la famiglia in un senso circoscritto, perché elimina l’attuale discriminazione fiscale contro le famiglie, in particolare quelle più numerose: il quoziente familiare elimina per le famiglie ciò che il drenaggio fiscale rappresenta per gli individui. Il vantaggio economico per le famiglie è significativo: secondo una recente stima del «Sole 24 Ore» una famiglia con tre figli e 60 mila euro lordi di reddito familiare avrebbe una diminuzione di 5.470 euro nel caso di un solo percettore e 2.520 se entrambi lavorano.
Solo tutto ciò che viene investito in aggiunta al quoziente familiare rappresenta una genuina politica che riconosce il ruolo di bene comune della famiglia e dei figli, in particolare quelli molto giovani: un numero crescente di studi ed evidenze empiriche ci conferma del fatto che la vita non comincia con la maggiore età ma fin dal momento della nascita, e che la quantità e qualità delle risorse investite nei primi 5-10 anni di vita è determinante nell’orientare la vita successiva. L’investimento sociale nei molto giovani ha le caratteristiche di un investimento irreversibile che va realizzato quando è il suo momento, non prima e nemmeno dopo, a livello locale molto più che nazionale. La forte promozione di una politica per la famiglia non deve far dimenticare che ormai il mondo è cambiato e ciò di cui vi sarebbe bisogno è una politica per la famiglia collocata nel quadro di ciò che chiamiamo la catena generazionale, cioè quella piccola comunità di 6-7 persone, costituite da nipoti, genitori e nonni che in concreto condividono risorse monetarie e tempo.
La crisi demografica del Paese pone sempre più spesso la generazione centrale dei figli che lavorano di fronte a scelte difficili e disgreganti, fra l’investimento sul futuro dei figli e la spesa necessaria per la cura del genitore non più autosufficiente. Se un maggior livello di reddito può compensare, entro certi limiti, le maggiori esigenze di spesa, la distribuzione del tempo nell’ambito della catena generazionale rappresenta il problema forse più acuto e l’organizzazione urbana e sociale delle nostre città sembra concepita per ostacolare, anziché favorire i momenti di comunità familiare. In altre parole, quando si consideri seriamente la questione del tempo, il valore sociale delle attività non di mercato, soprattutto da parte delle donne, deve essere considerato simultaneamente a quello tradizionale di mercato.
La domanda finale che è lecito porsi è se il potere politico abbia la consapevolezza e soprattutto lo sguardo lungo necessario per affrontare la così trascurata questione della famiglia: già nel XIX secolo John Stuart Mill ricordava come alla classe politica apparisse naturale dimenticare quei problemi che potevano essere trascurati senza danno elettorale, il che è forse la spiegazione più convincente della trascuratezza politica su questi problemi. Sarebbe forse un decisivo passo in avanti se si facesse strada la consapevolezza del fatto che il rallentamento della crescita del Paese è invece l’inevitabile conseguenza di un pacifico e silenzioso scontento delle famiglie italiane. Forse è tempo di immaginare nuove forme di democrazia.
Eco di Bergamo
Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica e prorettore all’Università Cattolica di Milano