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Animare il mondo è fornire al mondo buoni cittadini

Animare il mondo è fornire al mondo buoni cittadini

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MADRID, sabato, 27 agosto 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della catechesi tenuta il 19 agosto a Madrid in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid da mons. Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze.

* * *

Ecco le parole di uno scritto anonimo del II secolo dedicato a un cristiano di nome Diogneto; si tratta dei capitoli quinto e sesto, un testo esteso, ma che merita di essere ascoltato nella sua interezza:

«I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per regione né per linguaggio né per abito. Non abitano infatti città proprie né usano qualche dialetto inusitato né conducono una vita fuori del consueto. La loro dottrina non è certo un ritrovato dovuto a invenzioni e speculazioni di uomini intriganti; e neppure si atteggiano a sostenitori di una dottrina umana, come altri fanno. Abitano città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e ne seguono gli usi nel vestito, nel cibo, nel tenore consueto del resto dell’esistenza, ma manifestano la condizione mirabile e realmente paradossale della loro cittadinanza [spirituale].

Abitano nella propria patria, ma da forestieri. Prendono parte a tutto come cittadini e sopportano tutto come stranieri: ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria è terra straniera. Si sposano come tutti, generano figli, ma non espongono i loro neonati. Partecipano tutti di una stessa mensa, ma non di uno stesso letto.

Si trovano nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma vivono da cittadini del cielo. Ubbidiscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere sono oltre le leggi.

Amano tutti, ma da tutti sono perseguitati. Sono misconosciuti e condannati; vengono messi a morte, ma ottengono così la vita. Sono poveri, e arricchiscono molti; mancano di tutto, ma di tutto sovrabbondano. Vengono disonorati, ma col disonore trovano la gloria; vengono bestemmiati, e sono proclamati giusti. Sono insultati, e benedicono; vengono vilipesi, ed essi onorano. Operano il bene e vengono castigati come malfattori; castigati, gioiscono come chi riceve la vita. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati: ma coloro che li odiano non sanno dire la causa della loro inimicizia.

In una parola, ciò che è l’anima nel corpo, questo sono i cristiani nel mondo. L’anima è sparsa in tutte le membra del corpo, e i cristiani nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; e i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima, realtà invisibile, è custodita nel corpo visibile; anche i cristiani sono conosciuti in quanto sono nel mondo, ma rimane invisibile la loro religione. La carne odia l’anima e le fa guerra, senza averne avuto alcun torto, perché essa le impedisce di darsi ai piaceri; e il mondo odia i cristiani, senza averne avuto alcun torto, perché si oppongono ai piaceri. L’anima ama la carne che la odia e le sue membra; e i cristiani amano quelli che li odiano. L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; e i cristiani sono tenuti nel mondo come in una prigione, ma sostengono il mondo. L’anima dimora immortale in una tenda mortale; e i cristiani abitano come estranei tra le cose corruttibili, aspettando l’incorruttibilità nei cieli. Mortificata nei cibi e nelle bevande, l’anima diventa migliore; e i cristiani, ogni giorno, maltrattati, si moltiplicano ulteriormente. Dio ha loro assegnato un posto tale che non è loro lecito tirarsi indietro».1

Il testo è ben noto e variamente valorizzato. L’ho voluto riproporre nella sua integralità per non correre il rischio di strumentalizzarlo, pescando qua e là qualche frase di comodo. Si tratta di un pensiero complesso, che ha una straordinaria attualità. È di particolare valore per noi, che vogliamo meditare sul tema della testimonianza cristiana nel mondo, proprio perché si propone di offrirci una figura dell’esperienza cristiana a partire dall’immagine che essa offre di sé nella storia.

E la prima cosa che ci viene detta è che accogliere la chiamata a farci discepoli di Gesù non ci separa dal mondo, come gente speciale, un popolo a sé, un razza particolare. La sequela di Cristo si attua nel mondo e non separatamente da esso, lontano da noi ogni rifiuto della condizione storica dell’uomo e dell’ordine della creazione che ne è il fondamento. Sta qui, in particolare, la radice del riconoscimento di una legge naturale e di un piano razionale della realtà che è da scoprire, riconoscere, rispettare, nelle sue leggi e nelle sue potenzialità. La fede non si oppone alla ragione e ai frutti che da essa scaturiscono e che si codificano nelle espressioni della cultura dell’uomo. Anzi, le diverse tradizioni culturali appaiono tutte come un terreno fecondo in cui il cristiano è chiamato a innestare la sua fede.

Ma la presenza del cristiano nel mondo non si configura come un adeguamento ad esso, senza una prospettiva critica. Proprio la fede costituisce un principio irrinunciabile di discernimento in ordine al vero, al bene, al giusto e al bello, che porta il discepolo di Cristo a fuggire l’errore, il male, la prevaricazione, ciò che è ignobile e spregevole. Si stabilisce così un quadro di estraneità a ogni compromesso con mode, tendenze, egemonie culturali che sfigurano l’immagine divina iscritta nel profondo dell’identità dell’uomo e della donna. La fede opera come una sorgente di autenticità che sana e vivifica. Splendide al riguardo sono queste riflessioni dell’allora card. Joseph Ratzinger: «Vorrei proporre – egli dice – […] un’immagine rinvenuta in Basilio il Grande († 379), il quale nel confronto con la cultura greca del suo tempo si trovò di fronte ad un compito assai simile a quello che oggi interpella noi. Basilio fa riferimento al profeta Amos, là dove dice di sé: “Io sono un mandriano e coltivatore di sicomori” (7,14). La traduzione greca dei LXX esplicita diversamente l’ultima espressione: “Ero uno che incide i sicomori”, basandosi sul fatto che i frutti del sicomoro devono essere intagliati prima del raccolto, così da accelerarne la maturazione. Presupponendo questa prassi, […] Basilio scrive: “Il sicomoro produce frutti molto abbondanti, i quali però non hanno alcun sapore se non vengono incisi accuratamente, cosicché il loro succo fuoriesca ed essi diventino gradevoli al gusto. Per questo motivo consideriamo (il sicomoro) come un simbolo per l’insieme dei popoli pagani: sono una grande quantità, ma allo stesso tempo insipidi. Ciò deriva dalla vita secondo le abitudini pagane. Quando però si riesce a inciderla con il Logos, essa si trasforma, diventa gustosa e utile” [Basilio, In Isaia 9, 228 (comm. a Is 9,10)]. […] Soltanto il Logos può incidere le nostre culture e i loro frutti, affinché ciò che prima era inutilizzabile sia purificato e reso non soltanto valido ma anche saporoso. […] Il Vangelo è un “taglio”, una purificazione destinata a produrre maturazione e risanamento. Questo taglio, perché sia eseguito in tempi e modi giusti, esige paziente approfondimento e sensibilità, quindi approccio alla cultura dal suo interno, percezione delle sue minacce, come pure delle sue possibilità palesi o nascoste».2

È nelle nostre mani e nella nostra responsabilità una presenza nel mondo che non sia estraneità, ma neanche acquiescenza. La Lettera a Diogneto lo dice unendo tra loro, nell’identità del cristiano rispetto al mondo, le due condizioni del cittadino e dello straniero. Ma occorre comprendere bene la radice di questa estraneità. Essa non è legata alla pura dimensione etica, ma si identifica piuttosto nella prossimità alla persona di Gesù, accolto come presenza vivificante della nostra vita. Qui il testo della nostra lettera è meno esplicito, ma occorre pur chiedersi da dove proviene ai credenti la forza di questo porsi in alternativa al modo comune di vivere del mondo. L’apostolo Paolo non faticherebbe a dirci che è in Cristo la sorgente della nostra identità, ed è il dono dello Spirito a renderci capaci di frutti di bontà: «Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello Spirito camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,24). E ancora: «Voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,11).

La potenza della vita di Cristo in noi permette di vincere il male e di offrire al mondo una testimonianza di vita buona, non come qualcosa che viene da noi, come un dono di Dio in noi e attraverso di noi. La Lettera a Diogneto non manca di avvertirci che questa testimonianza subisce opposizione e che la condizione propria del cristiano nel mondo è quella della persecuzione o, meglio di sofferenza a causa della persecuzione cui è sottoposto il Vangelo e il suo annuncio, in continuità con il rifiuto che ha subito il Crocifisso. Non si tratta di mettersi in un atteggiamento di vittimismo, ma di prendere atto che non può esserci compromissione tra giustizia e iniquità, tra luce e tenebre. Continuando con le parole di Paolo: «Quale intesa fra Cristo e Bèliar, o quale collaborazione tra credente e non credente? Quale accordo fra tempio di Dio e idoli? Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente» (2Cor 6,15-16). Disprezzati, calunniati, maltrattati, i cristiani non si lasciano abbattere, perché sanno che proprio in questo crogiuolo vengono purificati e il Vangelo appare in tutto lo splendore della sua verità; al tempo stesso la persecuzione, nella storia del cristianesimo, è sempre stata sorgente di nuova evangelizzazione, di espansione della missione, di seminagione di nuovi cristiani, come affermava Tertulliano sul finire del II secolo. Solo nella persecuzione la testimonianza raggiunge pienezza e autenticità, perché solo in quella estrema condizione il discepolo raggiunge l’assimilazione al Cristo crocifisso.

A metà della sua riflessione, la Lettera a Diogneto introduce un’immagine riassuntiva del posto del credente nella storia: «In una parola, ciò che è l’anima nel corpo, questo sono i cristiani nel mondo». L’immagine da una parte serve a ribadire la stretta connessione dell’esperienza credente con le vicende umane e storiche, dall’altra però fa emergere l’irriducibilità dell’essere cristiano rispetto a queste stesse condizioni storiche. L’anima, infatti, di cui parla la Lettera è intesa, in una prospettiva platonica, come una realtà che, pur legata al corpo, ne è prigioniera e trova quindi la sua realizzazione solo liberandosene. Questa liberazione, nell’ottica della fede, è quella del compimento escatologico, per cui solo nella piena partecipazione alla vita nuova del Risorto si raggiunge la pienezza della vita in quanto tale. Senza la prospettiva escatologica è impossibile parlare di testimonianza, perché ciò a cui dobbiamo rendere nella testimonianza di Cristo è la costruzione della città celeste, e se ci interessa la città terrestre è solo in vista del suo pieno compimento nei cieli, a cui la storia tutta è destinata.

Dobbiamo purtroppo riconoscere che lo scarso rilievo dato alla dimensione escatologica nella spiritualità personale, nella vita pastorale delle comunità e nell’impegno storico dei cristiani rischia di ridurre queste espressioni della vita cristiana a forme diversificate di un vincolo etico, una riduzione che sta alla base dell’assimilazione dell’evento cristiano a una qualsiasi visione del mondo e a una prassi, pur alta e sublime, di autotrascendimento umano. Il paragone del rapporto tra cristiani e mondo con il legame tra anima e corpo non va quindi condotto avanti nei termini classici del platonismo, che porterebbero allo svilimento della dimensione corporea e materiale della creazione, fino a sfociare in uno spiritualismo disincarnato, che non a caso oggi va a contrapporsi senza costruzione al diffuso materialismo.

La fede cristiana sposta l’antitesi dal piano spirito-materia a quella tra il qui e ora e il futuro che ci attende. È questo futuro a dare significato al presente e solo il compimento può dare norma all’itinerario che ad esso conduce. In questa prospettiva la vita cristiana ha già una forma definita, quella che ci è offerta in Cristo Gesù, e il suo determinarsi nel tempo non è un progetto gettato nel caso, ma un cammino che verso tale compimento pone un passo dopo l’altro. Lo sguardo verso l’eschaton è dunque essenziale per la testimonianza cristiana, e la differenzia da ogni altra progettualità storica: «Ritengo infatti – ammonisce l’apostolo Paolo – che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati» (Rm 8,18-24). E di speranza ha bisogno oggi il mondo come non mai, cosicché la nostra testimonianza deve poter risplendere come un’offerta di speranza fatta a tutti. Non caso la nostra Lettera afferma che «i cristiani sono tenuti nel mondo come in una prigione, ma sostengono il mondo».

Animare il mondo è fornire al mondo buoni cittadini. Scrive con vivacità polemica sant’Agostino: «Coloro che affermano che la dottrina di Cristo è nemica dello Stato, ci diano un tale esercito, quale la dottrina di Cristo volle che fossero i soldati, ci diano tali cittadini, tali mariti, tali sposi, tali genitori, tali figli, tali padroni, tali servi, tali re, tali giudici, infine tali contribuenti e tali esattori del fisco, quali prescrive che siano la dottrina cristiana, e poi osino chiamarla nemica dello Stato e non esitino piuttosto a confessare che, se essa fosse osservata, sarebbe la potente salvezza dello Stato».3 La sfida di Agostino è piena di verità per i suoi tempi come per i nostri; e questo sia detto contro ogni tentativo di emarginazione dei credenti in quanto tali dalla vita sociale e dalle sue responsabilità, anche politiche, nel determinare le scelte per il bene comune. Ma è anche vero che tutto questo prende senso compiuto solo se viene unito a quella proiezione verso il compimento che trascende questo mondo mentre gli offre un orientamento e ne suscita e ne sostiene la speranza. Quel che l’apostolo Paolo ricorda ai cristiani di Filippi è quanto ogni cristiano deve ricordare agli uomini e alle donne del suo tempo: «La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3,20-21).

E le parole di Paolo ci riconducono all’essenziale della nostra riflessione, nel momento in cui pongono come compimento futuro non un mondo migliore, ma l’incontro con la persona stessa di Gesù. La testimonianza che ci è chiesta è infatti la testimonianza di Cristo. Testimoni di Cristo anzitutto perché è solo a lui che dobbiamo il servizio della testimonianza, perché lui solo riconosciamo come Signore. Ribadisco di nuovo, non è una tavola di valori etici che dobbiamo esibire di fronte al mondo, ma il senso che per noi ha avuto e che per tutti deve avere la presenza di Cristo nella storia umana se questa vuole trovare un orizzonte di salvezza.

Così intesa la testimonianza cristiana a favore di Cristo ha in Cristo stesso il suo contenuto. Oggetto della fede è la persona stessa di Gesù, la sua storia tra noi, nella forma personale della sua vita morte e risurrezione nella Palestina di duemila anni fa e nella forma misterica del prolungamento di questa presenza nella Chiesa mediante lo Spirito. Conoscere Gesù, lo spessore storico della sua vicenda di Figlio di Dio fatto uomo e lo spessore altrettanto storico della continuità della sua opera mediante la Chiesa è un dovere per ogni cristiano. Scrive san Paolo ai cristiani di Corinto: «Fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1Cor 2,1-2).

Ma dire Gesù, con le parole e con la vita, non è possibile se non a chi appartiene a lui. Ed essere testimoni di Cristo morto e risorto significa anche e soprattutto questo: appartenergli, essere suoi. Ha detto Benedetto XVI a Verona alle Chiese d’Italia raccolte nel convegno del decennio: «Testimoni di Gesù risorto. Quel “di” va capito bene! Vuol dire che il testimone è “di” Gesù risorto, cioè appartiene a Lui, e proprio in quanto tale può rendergli valida testimonianza, può parlare di Lui, farLo conoscere, condurre a Lui, trasmettere la sua presenza».4 Su questo legame con Cristo, mediante la Chiesa, il Papa torna a farci riflettere nelle parole del messaggio con cui ci ha invitato qui a Madrid, e sono parole che faccio mie come parole conclusive che vi affido: ««Nella storia della Chiesa, i santi e i martiri hanno attinto dalla Croce gloriosa di Cristo la forza per essere fedeli a Dio fino al dono di se stessi; nella fede hanno trovato la forza per vincere le proprie debolezze e superare ogni avversità. Infatti, come dice l’apostolo Giovanni, “chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1Gv 5,5). E la vittoria che nasce dalla fede è quella dell’amore. Quanti cristiani sono stati e sono una testimonianza vivente della forza della fede che si esprime nella carità: sono stati artigiani di pace, promotori di giustizia, animatori di un mondo più umano, un mondo secondo Dio; si sono impegnati nei vari ambiti della vita sociale, con competenza e professionalità, contribuendo efficacemente al bene di tutti. La carità che scaturisce dalla fede li ha condotti ad una testimonianza molto concreta, negli atti e nelle parole: Cristo non è un bene solo per noi stessi, è il bene più prezioso che abbiamo da condividere con gli altri. Nell’era della globalizzazione, siate testimoni della speranza cristiana nel mondo intero: sono molti coloro che desiderano ricevere questa speranza! Davanti al sepolcro dell’amico Lazzaro, morto da quattro giorni, Gesù, prima di richiamarlo alla vita, disse a sua sorella Marta: “Se crederai, vedrai la gloria di Dio” (cfr Gv 11,40). Anche voi, se crederete, se saprete vivere e testimoniare la vostra fede ogni giorno, diventerete strumento per far ritrovare ad altri giovani come voi il senso e la gioia della vita, che nasce dall’incontro con Cristo!».5

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1 Lettera a Diogneto, V, 1 – VI, 10.

2 Joseph Ratzinger, Comunicazione e cultura. Nuovi percorsi per l’evangelizzazione nel terzo millennio, in In cammino verso Gesù Cristo, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2004, p. 38-40 (orig.: Intervento al Convegno “Parabole medianiche”, 2 novembre 2002).

3 Sant’Agostino, Lettere 138, 2, 15.

4 Benedetto XVI, Omelia della Concelebrazione eucaristica in occasione del IV Convegno nazionale della Chiesa Italiana (Verona, 19 ottobre 2006).

5 Benedetto XVI, Messaggio ai giovani del mondo in occasione della XXVI Giornata Mondiale della Gioventù 2011 (6 agosto 2010),5.
a cura di Alfio