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“Alunni di sostegno» agli insegnanti (di sostegno)

“Alunni di sostegno» agli insegnanti (di sostegno)

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Riflessione ad ampio raggio sulla scuola firmata da Maurizio Blondet. Cosa ne pensate: la scuola è davvero un organismo che sopravvive grazie a sè stesso, dove i ragazzi sono (in fondo minimo) dettaglio?
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Maurizio Blondet – 15 Settembre 2010

Nelle scuole inglesi ben 1,7 milioni di scolari risultano bisognosi di «esigenze speciali» per diversi motivi: difficoltà di apprendimento, problemi di comportamento, difficoltà emozionali o di comunicazione, oppure provenienti da famiglie disastrate, o piccoli stranieri che non sanno l’inglese.

Ebbene: un serissimo rapporto rivela ora che circa la metà di questi bambini e ragazzi «differenziali» in realtà non sono diversi dai bambini normali; se rendono meno a scuola, è a causa del «cattivo livello degli standard educativi» (e degli insegnanti) delle scuole da loro frequentate.

Il rapporto è stato stilato dall’Ofsted (Office for Standard in Education), che è un super-ispettorato del ministero dell’Istruzione, noto per la sua indipendenza di giudizio. Dopo accurate indagini sul campo in asili, elementari, medie, l’Ofsted è giunto ad una conclusione ancora più abrasiva: sono le scuole stesse ad esagerare il numero di alunni «con speciali esigenze» per mascherare la bassa qualità del loro insegnamento. In altre, crude parole, gli insegnanti si dicono: non siamo noi ad essere insufficienti, sono i ragazzi ad essere sub-standard. E magari subnormali.

In Inghilterra, meno del 3% degli alunni è formalmente dichiarato «differenziale», con un documento medico-psicologico avente valore legale che, accertando un reale handicap mentale o fisico, dà loro il diritto a insegnanti di sostegno ed altri benefici di aiuto. Negli ultimi sette anni, il numero di questi veri «differenziali» è diminuito. Per contro, è aumentato a dismisura il numero di bambini dichiarati «con bisogni particolari» dalle scuole stesse: ben il 18,2% degli scolari è in programmi di sostegno definiti da ciascuna scuola, per lo più senza una valutazione indipendente. In tal modo, fra l’alto, le scuole attraggono maggiori fondi dagli enti locali, e salgono nella graduatoria nazionale degli istituti didattici, che assegna un punteggio alto alle scuole con tanti «bambini con esigenze speciali».

Il sostegno o trattamento speciale, poi, si riduce troppo spesso ad una medicalizzazione del problema. Gli insegnanti, diagnosticando nei bambini difficili «dislessia, deficit attenzionale e iperattività», scaricano il problema educativo alla medicina, più precisamente all’industria farmaceutica: negli ultimi 4 anni, il Servizio Sanitario Nazionale ha accresciuto del 65% le spese per farmaci contro l’ADHD (deficit di attenzione più iperattività) da somministrare agli scolari, al costo aggiuntivo di 31 milioni di sterline. Ignoto il prezzo delle cure e delle attività di sostegno proposte da gruppi di volontariato che (a spese del contribuente) si fanno arruolare per sviluppare le qualità dei bambini con fantasiose tecniche di visualizzazione, misurazioni delle onde cerebrali, ripetizione di mantras, eccetera: cose che succedono in Inghilterra. Ma che ricordano da vicino il gigantesco business italiano dei corsi di formazione, 15 miliardi di euro l’anno gestito da Regioni e Provincie, e spesso affidati a ditte che fanno capo a sindacati o a amici, inutili per gli allievi ma utilissimi per gli organizzatori della formazione. Tant’è che in Sicilia, nel 1999 c’erano 42 enti per la formazione, e dieci anni dopo sono 250.

Il fatto più grave è che le scuole con troppi bambini dalle esigenze speciali provocano una diminuzione delle aspettative degli scolari e dei giovani in quanto ad istruzione e a riuscita scolastica. Per usare altre crude parole: le scuole degli scemi sfornano scemi. Un bambino normale, se viene trattato come un handicappato mentale, troppo facilitato e assistito dagli insegnanti di sostegno, finisce per sentirsi, e fare, l’handicappato.

E c’è di più: è vero che essere nati da famiglie povere e socialmente inferiori rende più difficile imparare a leggere. Ma è anche vero – ha scoperto l’Ofsted – che a premere per far dichiarare i loro figli con esigenze speciali sono i genitori della classe media e istruita, allo scopo di procurare ai loro pargoli i vantaggi del caso: speciale attenzione degli insegnanti, manica larga nelle valutazioni, più tempo per le prove d’esame, a volte persino computer portatile di sostegno e apparecchio MP3.

Conclusione della Ofsted: le scuole devono smettere di etichettare i bambini come bisognosi di sostegno, «quando invece hanno semplicemente bisogno di un insegnamento migliore». (Ofsted: schools exaggerating special needs to hide poor teaching)

Può essere consolante sapere che accade anche in Inghilterra. Specie nei giorni in cui 300 mila precari della scuola, ovviamente sostenuti da sinistre, sindacati e giornali che diciamo chissà perchè progressisti, bloccano navi e strade contro i tagli della Gelmini, sostenendo che difendono la qualità dell’insegnamento, che sarebbe il loro.

I sindacati docenti hanno anche protestato per una inchiesta di Tuttoscuola, che ricalca da vicino le scoperte della Ofsted inglese. Nelle nostre scuole i portatori di handicap sono aumentati di dieci volte più di quanto siano aumentati gli studenti in generale. Più precisamente: negli ultimi cinque anni la popolazione scolastica generale è aumentata solo dell’1,2%, ma gli handicappati, differenziali o presunti tali sono cresciuti del 12,3%.

Di conseguenza la crescita degli insegnanti di sostegno, categoria strepitosamente affollata di dipendenti pubblici (90 mila dipendenti in parte precari), che costa 3 miliardi l’anno. Ma il rapporto di causa-effetto va rovesciato: non più handicappati richiedono più insegnanti di sostegno, ma al contrario, più insegnanti di sostegno, per imbucarsi nel posto fisso, esigono (e creano) più handicappati. Teorici, per fortuna, ossia sulla carta. Difatti, gli studenti effettivamente disabili sono più numerosi al Nord-Ovest e al Centro Italia, ma gli insegnanti di sostegno sono più numerosi al Sud e Isole. Dove vive il 27% della popolazione italiana, ma dove soffrono il 40% degli alunni bisognosi di un sostegno con relativo insegnante (erano uno ogni tre alunni qualche anno fa, oggi uno su due). E tutta questa tragica realtà di insufficienza mentale o fisica, secondo Tuttoscuola, «dipende in buona misura dai diversi criteri utilizzati dalle Asl meridionali per la valutazione delle disabilità». Insomma, è il Sud provvidenziale, lo stesso che crea falsi invalidi, a creare alunni di sostegno a sostegno di insegnanti di sostegno.

E il numero di questi ragazzi infelici, incapaci, subnormali, caratteriali (sulla carta) minaccia di aumentare ancora, come effetto non-voluto dei «tagli della Gelmini». Scrive Gian Antonio Stella sul Corriere del 10 agosto: «Spiega il dossier che il posto d’insegnante di sostegno è in realtà una scorciatoia per la conquista della cattedra a vita. Basti dire che ‘dei 10 mila posti di docente per le nuove immissioni in ruolo 2010-11, più della metà (5.022) sono per posti di sostegno». Posti che dopo 5 anni, una volta guadagnata l’assunzione, si possono abbandonare per «passare all’insegnamento tradizionale». Imbucati per sempre, nonostante i tagli.

«Ma come si diventa insegnanti di sostegno?», domanda Stella: «Penserete: chissà quanti studi! No: basta frequentare un semestre aggiuntivo all’università, per 400 ore totali. E non sempre la preparazione è all’altezza: per gli alunni con disabilità visiva, ad esempio, non è raro imbattersi in docenti di sostegno che non conoscono l’uso del Braille, la scrittura per ciechi».

Il fatto che anche in Inghilterra, dove il servizio pubblico funziona con una onestà sconosciuta da noi, accada qualcosa di simile – la casta degli insegnanti lavora anzitutto per sè e i per propri posti, anzichè per gli alunni – può consolare (2). Ma pone il problema ad un livello più alto e drammatico, quello della civiltà. Se fosse la scuola a rendere i nostri figli così scemi, impreparati, e pateticamente inadatti alle sfide della post-modernità globale, e della vita in generale? Se fosse la scuola universale e obbligatoria – questa grande invenzione della civiltà occidentale, creata due secoli fa per attuare l’uguaglianza dei cittadini attraverso l’alfabetizzazione e l’istruzione di massa, e per trasformare i contadini del tempo antico in tecnici e scienziati – ad essere, oggi, la palla al piede che degrada la civiltà europea e rende i nostri figli meno adeguati, poniamo, dei cinesi, degli indiani o degli immigrati (che sono stati almeno alla scuola della vita dura)? Se fossero i genitori edonistici che vogliono riparare i figli da ogni difficoltà, scacco e sfida, a creare i mollicci giovanotti che ci vediamo attorno? Se fosse la civiltà occidentale – con le sue facilitazioni di massa, le proprie organizzazioni di previdenza, le proprie caste di servizio pubblico – a provocare la sua propria decadenza?

Insomma: e se proprio tutte le nostre invenzioni fautrici di progresso – dalla scuola pubblica al credito finanziario allargato, dalla difesa sindacale dei diritti alla fiscalità, dalla sicurezza e previdenza sociale fino alla democrazia pluralista occidentale – fossero la causa fondamentale del nostro regresso, inestirpabile perchè non sappiamo spezzare gli interessi che vi si sono incrostati e che ormai hanno smesso di servire la comunità, per servire se stessi?

Il che equivale a chiedersi se non siamo giunti, collettivamente come Occidente, alla condizione che fu dell’antica Cina. Per secoli, anzi millenni, l’Impero del Mezzo fu un vivace pullulare di creatività tecnica e scientifica; là fu inventato il primo ausilio tecnico del calcolo (l’abaco) nel 500 avanti Cristo, fu inventata la carta, la stampa, la polvere da sparo, la bussola (le quattro grandi invenzioni). Là la scrittura era diffusa già 3.500 anni fa, là fu fabbricata la prima balestra – arma da guerra capace di perforare armature – nel 200 avanti Cristo; là comparvero i primi sismografi direzionali, le prime meridiane, i primi razzi; là furono concepiti il primo meccanismo a scappamento per gli orologi e il primo ingranaggio differenziale. Furono realizzate precise mappe del cielo, previste eclissi, segnalate sistematicamente comete. Furono intraprese esplorazioni del mondo circostante, tutti indizi di una vivace, inesausta curiosità intellettuale. Per secoli, la Cina fu il Paese-continente più avanzato, e anche quello più ricco del mondo. Poi, verso l’età moderna, tutta questa creatività stagnò.

I motivi, si dice, furono due: l’autocompiacenza per la propria superiorità (l’idea che non avevano più niente da imparare) e l’organizzazione stessa – a suo modo perfetta – dello Stato burocratico con il peso soffocante delle sue procedure. I mandarini erano uomini di alta cultura, che superavano ardui esami, e poi formavano la rete dell’amministrazione pubblica. Fermarono la cultura viva con la cultura morta, e incosciamente con la difesa della propria posizione e privilegio.

Cultura a parte (i mandarini l’avevano, classica), sono un po’ così i precari della scuola che bloccano lo Stretto di Messina, a loro dire per difendere la qualità dell’insegnamento: il problema è, appunto, che a non bastare è la qualità che sono capaci di dare e di concepire loro.

Certo, dispiace accusare di privilegio castale dei poveracci che sono a volte precari da 30 anni, e il cui privilegio consta di mille euro al mese o giù di lì. Certo ci sono caste ben più pagate e mandarini miliardari e infinitamente più saldi nella poltrona, che hanno messo ben altra palla al piede dell’Occidente. Gli economisti del Principe senza volto, per esempio, tutori di teorie retrograde che ci hanno portato alla rovina. O i banchieri centrali, riuniti in pompa magna pochi giorni fa – sotto la guida del veneratissimo Mario Draghi – che hanno distillatoBasilea III, ossia l’aumento delle riserve obbligatorie della banche dall’attuale 2% al 7% (il che restringerà ancora il credito all’economia reale) ma, mi raccomando, gradualmente, in otto anni, e senza toccare i meccanismi che scatenano la speculazione selvaggia e la grande frode finanziaria, e che produrranno la prossima crisi.

Il primo florilegio di commenti che ho letto è del tipo: «Gonfiare le riserve vuol dire essenzialmente che non si cerca di comprendere, nè di impedire le crisi, ma solo di ammortizzare gli effetti della prossima». Altro: «Per prevenire, bisognerebbe guarire». Draghi ha «elevato una linea Maginot». E i banchieri centrali, «come i generali,hanno combattuto la guerra precedente».

Come si vede, i commenti additano tutti il carattere retrogrado, intellettualmente attardato, moralmente mediocre e monco della decisione. Ma questo, ovviamente, richiede un altro pezzo.

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1) Da un’intervista a Pietro Ichino: «Parlando di formazione si tende a fare riferimento a un fiume di denaro pubblico – si stima circa 15 miliardi di euro annui – che finanzia i corsi, a volte anche inutili per gli allievi, ma molto utili per le tasche di chi li organizza. In Italia il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi non viene rilevato in modo sistematico, ma soltanto in modo episodico e poco diffuso: solo così possiamo tenere pietosamente nascosta la misura dell’inefficienza e inefficacia di un sistema che spreca più di metà delle risorse pubbliche destinategli dalle Regioni e dall’Unione Europea. Inoltre, ci sono Regioni – la Sicilia in testa a tutte – che pagano lauti stipendi a centinaia e centinaia di ‘istruttori’ e‘formatori’ assolutamente inidonei alla funzione, i quali sovente vengono lasciati per anni e anni senza far nulla. Sono miliardi letteralmente gettati dalla finestra».
(Il ruolo della formazione nel sistema della flexsecurity)
2) Il problema dell’insufficienza crescente della scuola viene discusso anche in Francia. Il 15% degli allievi arrivano alla secondaria senza saper leggere. Escono saggi dai titoli come: La fabbrica del Cretino – la morte programmata della scuola, di Jean Paul Brighelli e Autopsia del Mammuth: l’educazione nazionale respira ancora?, di C. Mazeron.