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Politiche familiari. «Quoziente» e lavoro femminile una mistificazione da smontare

Politiche familiari. «Quoziente» e lavoro femminile una mistificazione da smontare

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L’impatto di una riforma tributaria sulla vita e le scelte dei genitori

Da quando il governo ha rimesso il quoziente familiare (Qf ) al centro del dibattito, la discussione si è spesso arenata sull’obiezione che esso potrebbe scoraggiare il lavoro femminile. È necessario ribattere in maniera decisa a questa obiezione se si vuole sviluppare in Italia un sistema fiscale davvero a misura di famiglia. Il Qf – lo ricordiamo – è un modo per calcolare la tassazione non già incentrato sull’individuo ma piuttosto sulla famiglia e tiene conto, con un unico strumento, sia dell’equità verticale (ovvero l’idea che famiglie più ricche debbano pagare proporzionalmente di più delle famiglie povere) sia dell’equità orizzontale (ovvero che a parità di reddito, una famiglia con più componenti debba pagare meno tasse di un single). Oggi la tassazione in Italia avviene in maniera molto diversa: si calcolano le tasse sulla base dei redditi dei singoli componenti di una famiglia, si applica poi una risibile detrazione se uno dei coniugi non lavora e infine si trasferiscono alla famiglia delle risorse in presenza di figli di meno di 21 anni tramite l’appena introdotto Assegno unico e universale (Auu).

Ma torniamo alla questione del Qf e del suo ruolo rispetto alla partecipazione femminile al mercato del lavoro. Per capire questa obiezione si prenda un caso di una famiglia monoreddito dove il marito oggi guadagna una somma consistente, diciamo di 60mila euro lordi all’anno, e la moglie – definita in gergo il secondo percettore – non lavora e però sta considerando se accettare un lavoro poco retribuito (diciamo 15mila euro all’anno). Con il sistema della tassazione individuale su cui si basa attualmente l’Irpef, se la moglie cominciasse a lavorare, domani affronterebbe una aliquota media bassa perché, fino a circa 8mila euro c’è la no tax area e per i restanti 7mila euro si applicherebbe il primo scaglione dell’aliquota pari al 23%. In un regime di Qf – dicono i critici – un eventuale nuovo reddito che si aggiungesse a quello del marito comporterebbe l’ulteriore aumento del reddito familiare a 75mila euro comportando pertanto per la moglie di affrontare un aliquota media ben più elevata, e quindi un salario netto inferiore e questo finirebbe per scoraggiare – sostengono sempre i critici del Qf – la decisione di lavorare della donna. Questa critica va, però, messa in prospettiva e smontata con pazienza.

Dobbiamo per forza partire dall’effetto principale del Qf che è quello di conferire sostanziali benefici fiscali alla famiglia. Con il Qf quella famiglia pagherebbe complessivamente meno tasse perché il reddito familiare di 60mila euro o 75mila euro sarebbe tassato con un aliquota media inferiore proprio grazie al Qf. Ricordiamoci che la stessa Corte costituzionale ha più volte ribadito che «l’attuale trattamento fiscale della famiglia penalizza i nuclei monoreddito e le famiglie numerose» (sentenza n. 358/1995 che ripercorre le numerose volte che il tema è stato ribadito dalla Corte stessa) e perciò non rispetta il principio costituzionale di equità orizzontale. C’è quindi un effetto principale del Qf che è quello di favorire fiscalmente le famiglie per una questione di equità e anche di incentivo a formare nuove famiglie e c’è un effetto ipotizzato secondario che riguarda la partecipazione del secondo percettore di reddito al mercato del lavoro.

 

Continua a leggere l’articolo completo su avvenire.it di Matteo Rizzolli