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Per un lavoro dal volto umano, conciliare famiglia e lavoro: il caso di Mantova

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Conciliare il lavoro e la famiglia: un tema caldo del nostro tempo, tra crisi economica e dissesto demografico. Per il buon funzionamento della società è necessario trovare i modi per consentire a tutti coloro che lo desiderano di avere i figli che desiderano (intorno a 3 per donna, lo sapevate?Eppure il nostro tasso di fertilità è intorno all’1,4), senza perdere il lavoro e il proprio livello di vita. Così, mentre la regione Lombardia vara ambiziose e organiche politiche di conciliazione, anche nel resto d’Italia c’è fermento.
Riportiamo qui il caso di Mantova, atraverso la testimonianza di una consulente del lavoro, Arianna Visentini. E invitiamo i nostri lettori a segnalare le cosiddette “buone prassi” che stanno sperimentando o di cui sono a conoscenza, dal part time flessibile alla spesa condivisa, dallo psicopedagogista in azienda alla baby sitter a chiamata. Le presenteremo ai tavoli di lavoro su cui ANFN è impegnata.
Per le vostre segnalazioni scrivete a redazione@famiglienumerose.org

da: UNA CITTÀ n. 180 / 2011 Dicembre 2010 – Gennaio 2011

Intervista a Arianna Visentini
realizzata da Barbara Bertoncin

IL DISTRETTO FAMILY FRIENDLY

A Mantova sempre più aziende stanno adottando forme di conciliazione famiglia-lavoro, dal part-time, alla formazione al rientro dalla maternità, fino alla spesa in comune; la scoperta che in fondo basta poco e la convinzione che la conciliazione può essere anche un fattore di competitività. Intervista a Arianna Visentini.

Arianna Visentini è titolare della società di consulenze Variazioni Srl. Da anni si occupa di supportare le aziende e gli enti locali nella progettazione e realizzazione di misure in favore della conciliazione famiglia-lavoro e in particolare dell’articolo 9 della legge 53 del 2000.

A Mantova negli ultimi anni diverse aziende, avvalendosi anche dell’art.9 della legge 53 del 2000, hanno avviato esperienze di conciliazione famiglia-lavoro. Puoi intanto spiegare cosa sancisce questa legge e perché è così importante?

La legge 53 è stata promulgata nel 2000 dall’allora Ministero del lavoro e delle politiche sociali e si occupa di “Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”.
L’art. 9, nello specifico, prevede la messa a disposizione di quelle risorse finanziarie, a fondo perduto, che devono consentire alle aziende, quindi a soggetti privati, di implementare interventi nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, della formazione e dei servizi. Per organizzazione del lavoro intendiamo la gestione dei tempi e dei luoghi di lavoro, quindi azioni che vanno verso la riduzione dell’orario, introduzione di misure di flessibilità per i dipendenti con esigenze di conciliazione, e poi ancora banca del tempo, banche delle ore, gruppi di lavoro, telelavoro, job sharing. Questo rispetto all’organizzazione.
La seconda area trova applicazione innanzitutto nella formazione dei dipendenti al rientro da un congedo di maternità o di paternità al fine di ridimensionare i gap che si producono in seguito alla lunga assenza.
L’art. 9 della legge 53 del 2000, in realtà, ha avuto varie vicissitudini, ha faticato moltissimo a decollare, perché la maggior parte delle aziende italiane non è molto lungimirante e spesso difetta della preparazione, anche culturale, necessaria a recepire e dare concretezza a una norma che comunque è complessa, sia nella forma che nei contenuti. E tuttavia quell’articolo è stato sicuramente la leva che ha consentito al territorio di attivarsi. In due anni, fino a quando lo strumento ha subito uno rallentamento, un blocco -speriamo transitorio- Mantova è riuscita a candidare una trentina di progetti, ventisei dei quali sono stati approvati per circa due milioni di euro di risorse impegnate per le aziende mantovane.
L’impatto è stato forte, anche a livello di comunicazione, di visibilità, si è innescato un processo virtuoso anche di concorrenza sui temi del welfare aziendale. Tant’è che, nonostante lo strumento sia bloccato, ben tre aziende recentemente hanno avviato un servizio di nido senza finanziamenti pubblici.
Negli ultimi mesi poi ci sono stati alcuni segnali, anche concreti, che fanno ben sperare. Il 29 aprile 2010 la Conferenza unificata Stato-Regioni ha approvato il Piano di conciliazione famiglia-lavoro, il cosiddetto Piano Carfagna, che prevede un finanziamento pari a 40 milioni di euro. Infine, proprio a Mantova, lo scorso 29 novembre, è stato siglato il primo accordo regionale di Collaborazione territoriale sulle politiche di conciliazione famiglia-lavoro, primo passo verso l’attuazione degli interventi previsti dall’Intesa Stato-Regioni di aprile.
Quali sono le iniziative concrete che le aziende hanno adottato per promuovere la conciliazione famiglia-lavoro?

Il caso più noto è quello della Lubiam S.p.A, impresa tessile storica di Mantova, perché è stato il primo e quindi avuto un certo clamore. Le misure sono state innanzitutto la concessione del part-time. Sembrerebbe una banalità, in realtà erano alcuni anni che l’azienda faceva molto fatica a concederlo. Qui come altrove, gran parte dei part-time erano stati concessi negli anni ‘80 e ‘90, in fasi economiche di crescita, ma soprattutto erano stati concessi a tempo indeterminato.
D’altronde all’epoca il modello familiare era legato alla cosiddetta figura del male bread winner, per cui il padre di famiglia era il vero percettore del reddito e la moglie integrava. Le aziende avevano quindi esaurito, ai sensi della legislazione dei contratti nazionali vigenti, il numero di posti che erano tenute a concedere per il part-time. Così, anche se le persone alle quali l’avevano concesso non ne avevano più una necessità stringente, perché magari avevano i figli grandi, chi aveva i bimbi piccoli non riusciva più ad ottenerlo.
L’art. 9, in questi casi, ha contribuito a riavviare un meccanismo di rotazione. Contemporaneamente, noi, come tecnici, abbiamo cercato di portare una nuova cultura del part-time, legata più alla transitorietà dell’assunzione, cercando di sradicare qualche stereotipo legato al fatto che le aziende, ad esempio, lo considerano uno strumento costoso o temono che la madre, in qualche modo, disinvesta sul lavoro. In realtà il part-time per le mamme è davvero una grande risorsa perché a volte rientrare a tempo pieno è davvero difficile, quando non impossibile.
Tornando a Lubiam, l’azienda ha concesso il part-time a quattro dipendenti che poi sono diventate sei. Poi è stata concessa una flessibilità dell’orario di lavoro di trenta minuti a tutti gli impiegati, che quindi possono entrare tra le otto e le otto e mezza e conseguentemente spostare l’orario di uscita. Un modello non facilissimo e così immediato da recepire e adottare, ma che è stato molto apprezzato. Poi è stata fatta formazione al rientro dalla maternità. Non solo: ad alcune donne, al rientro dalla maternità, è stato proposto un percorso di empowerment finalizzato a una progressione di carriera. Cioè l’azienda non si è limitata a colmare il gap accumulato durante l’anno di assenza, ma ha tentato di sfruttare il periodo di recupero favorendo un consolidamento e allargamento delle competenze volti a un passaggio di qualifica. Così, inaspettatamente, l’assenza per maternità si è trasformata in un’accelerazione della promozione! Un’altra azione estremamente innovativa è stata l’attivazione dello sportello “family friendly”. In sostanza, per un paio d’ore alla settimana è stata messa a disposizione una psicopedagogista, a cui i dipendenti potevano rivolgersi per avere una prima consulenza gratuita su problemi attinenti alla conciliazione e al benessere familiare e che eventualmente poteva attivare un’ulteriore consulenza gratuita specifica. Questa seconda consulenza poteva riguardare l’avvocato, lo psicologo, il commercialista per tutti i problemi che riguardano la gestione economico-familiare, il pedagogista o lo psicologo per l’infanzia in caso di problemi dei bimbi.
E’ stata un’esperienza faticosissima da far partire, anche per una comprensibile diffidenza dei dipendenti ad andare a raccontare i fatti propri all’azienda, ma che poi ha avuto esiti molto interessanti. Quando i lavoratori hanno capito che comunque la persona che era stata individuata era assolutamente affidabile e anche la consulenza specifica di assoluta qualità, alla fine lo sportello è decollato. L’intenzione dell’azienda, non avendo più le risorse per finanziare direttamente i consulenti, era quella di stringere almeno delle convenzioni, una forma di scontistica per i propri dipendenti; non so come sia finita.
L’altra esperienza innovativa è stato il Baby Lubiam cioè l’attivazione di un servizio di accudimento dei figli piccoli delle dipendenti durante le vacanze natalizie e pasquali, attraverso il coinvolgimento di un’associazione che ha messo a disposizione le proprie educatrici.
Un altro caso interessante è quello di Atelier Aimée, già impresa virtuosa, che attraverso l’art. 9 ha riorganizzato i profili orari delle dipendenti. Parliamo di una ditta che confeziona abiti da sposa, dove le lavoratrici sono tutte persone altamente qualificate, sarte di prim’ordine, e quindi l’azienda ha capito che non poteva permettersi, non solo la perdita della dipendente, che sarebbe stata un dramma, ma anche il solo fatto che la dipendente fosse stressata o avesse dei problemi, perché lo stato di benessere ha una ricaduta diretta sulla qualità del prodotto, che è tra l’industriale e l’artigianale. Atelier Aimée, in pratica, ha riorganizzato tutta la tabella degli orari concedendo alcuni part-time e in generale mettendo in atto una forte personalizzazione degli orari.
Riguardo la gestione del congedo di maternità, anche loro hanno previsto una personalizzazione dell’orario di lavoro al rientro. Addirittura offrono alle mamme la possibilità di avere a disposizione delle “baby-sitter a chiamata” che si recano presso il domicilio della dipendente qualora questa non possa assentarsi dal lavoro. E’ stato inoltre allestito un servizio di ludoteca dove i bimbi vengono accuditi dalle operatrici di una cooperativa sociale.
Interessante è anche il progetto della cooperativa Fior di Loto. Anche lì c’è stata la concessione del part-time e la gestione del congedo di maternità con flessibilizzazione degli orari al rientro. Loro però hanno adottato un’ulteriore formula, molto originale, quella della “spesa in comune”. In pratica, hanno individuato un dipendente che un giorno alla settimana raccoglie gli ordini di colleghe e colleghi (è un’azienda molto più piccola, saranno una ventina) e va a fare la spesa per tutti. Utilizza un piccolo furgoncino di proprietà della cooperativa e al ritorno distribuisce i sacchetti del supermercato, ciascuno con dentro il suo scontrino, e così in una mattina è stata fatta la spesa per tutti!
Durante l’estate, invece, nel giardino dell’azienda organizzano un Centro ricreativo estivo per cui i dipendenti vanno in azienda col bimbo, che trascorre la giornata in cortile o svolgendo delle attività, e la sera tornano a casa assieme. Anche questo è stato un progetto molto partecipato.
In un’altra cooperativa sociale di facchinaggio, con dipendenti stranieri, extracomunitari, una delle azioni finanziate è stata l’internalizzazione, tra virgolette, di un tecnico comunale che seguisse le pratiche di soggiorno. Così i dipendenti stranieri non erano più obbligati a fare la coda ai vari sportelli, spesso senza capire, senza sapere, senza un supporto, perdendo intere mattinate inutilmente, ma l’azienda stessa si è fatta carico di accompagnare i dipendenti lungo il disbrigo delle pratiche legate alla loro permanenza nel nostro paese. La stessa cooperativa ha introdotto la banca del tempo, però su base annuale. In pratica i dipendenti non usano più le ferie per i ricongiungimenti; tutti gli straordinari vengono accumulati in una sorta di banca delle ore e restituiti quando i lavoratori tornano nel loro paese d’origine.
Infine l’art. 9 si è rivelato utile anche per gli esercizi commerciali che, come sappiamo, oggi sono costretti ad estendere gli orari di apertura. Per esempio il noto negozio di scarpe Mollard del centro storico di Mantova, di proprietà di Annick Mollard, sta usufruendo di un servizio di baby sitter condivisa dalle sue due dipendenti che in tal modo possono garantire la copertura di tutto l’orario di apertura del negozio, festivi inclusi.
L’art. 9 viene incontro anche ai bisogni di conciliazione degli imprenditori, uomini e donne…
In questi casi, l’art. 9 concede al titolare dell’impresa le risorse necessarie a pagare un sostituto. In genere viene attivato quando c’è una maternità. Devo dire che, nei casi che abbiamo seguito, si è rivelato uno strumento molto importante. Ho in mente il caso di un’imprenditrice donna, titolare dell’agriturismo “le Calandre”, che si occupava da sola del ristorante e di tutta la gestione della terra. L’art. 9 le ha consentito di non chiudere per qualche mese, perché ovviamente con un bimbo di pochi mesi non avrebbe potuto gestire l’intera attività da sola, avrebbe dovuto fermarsi. Invece in questo modo è riuscita a conservare alcune mansioni cedendo parte del lavoro, quello più duro, a una collaboratrice.
Un’altra imprenditrice ha adottato un bambino e, grazie all’art. 9, per un anno è riuscita a farsi sostituire. Lei è un’entusiasta di questa legge: senza, avrebbe subito una flessione significativa della sua attività e del fatturato. Perché ovviamente con un bimbo vietnamita di due mesi e una vita da riorganizzare sarebbe stata molto dura..
La conciliazione spesso comporta piccoli aggiustamenti nell’organizzazione aziendale. Perché allora è così difficile far passare queste prassi?

In effetti molti cambiamenti sono banali, però la conciliazione in realtà è una materia complessa, non ultimo per il fatto che veniamo da anni di una cultura industriale che ha imposto la standardizzazione dei modelli organizzativi e che fa resistenza all’idea che con la conciliazione ci si può pure guadagnare.
D’altra parte, il livello culturale dei nostri piccoli imprenditori è uno dei più bassi d’Europa e questo vuol dire che sicuramente in autonomia non riusciranno mai a dotarsi degli strumenti necessari per comprendere che invece alcune soluzioni sono foriere di cambiamenti positivi. Fortunatamente, su province piccole come la nostra, quando un imprenditore parte, gli altri seguono.
L’altra difficoltà sono gli indicatori di efficacia. Noi ci stiamo lavorando, ma non è facile. Anche se, per dire, il fatto che molte mamme a cui viene offerta una flessibilità rientrino prima, è già un indicatore. In fondo anticipare il ritorno al lavoro, purché in condizioni consone, conviene prima di tutto alla donna perché nel periodo di maternità facoltativa non percepisce reddito. Insomma, a volte le soluzioni sono davvero banali.
In un’altra importante azienda tessile che produce abiti da uomo di alta gamma, il direttore del personale a un convegno di Confindustria, ha confermato che da quando concede il part-time a rotazione, ovvero a tempo determinato per il solo periodo in cui il dipendente ha esigenze di conciliazione, si è verificata una sensibile riduzione della difettosità del prodotto. Quindi le operaie tessili che lavorano quattro ore al giorno hanno margini di difettosità molto inferiori a chi invece lavora otto ore ed è stressato. Quindi anche la mancata conciliazione ha dei costi. Così come è diminuito l’assenteismo. Per particolari e gravi esigenze di conciliazione, questa ditta, oltre che il part-time (che però viene rivalutato ogni sei mesi) concede anche mesi o anni di aspettativa, piuttosto che spingere alle dimissioni. Tra l’altro queste iniziative non hanno nemmeno goduto di finanziamenti pubblici, noi le abbiamo monitorate solo come buone pratiche.
Purtroppo nel piccolo e medio imprenditore spesso prevale l’orgoglio, il senso della proprietà, dell’essere responsabile ultimo delle decisioni, del destino e delle politiche che vengono fatte all’interno di quell’azienda. Noi abbiamo visto imprenditori che hanno preferito licenziare, anche a costo di onerosi indennizzi, pur di liberarsi di donne competenti semplicemente perché si erano rivolte ai sindacati o alla consigliera di parità per essere aiutate a contrattare formule di conciliazione.
Fortunatamente qualcosa si sta muovendo. Per esempio, nell’alto mantovano, alcuni imprenditori si sono mossi e hanno accettato di sedersi attorno a un tavolo per valutare assieme ai servizi presenti sul territorio e all’ente locale come calibrare gli orari assieme. Va anche detto che l’azienda non può essere lasciata sola in questo compito, ma se comincia ad esserci anche il comune, il servizio di prossimità, quindi il nido e la scuola materna, e tutti assieme si concerta su come personalizzare qualche orario… beh non è un’impresa impossibile.

Il sindacato collabora?

Le organizzazioni sindacali hanno un potenziale enorme su questi temi, però anch’essi soffrono un po’ di una cultura più votata all’antagonismo che alla conciliazione. Mi sembra siano combattuti tra l’opportunità e la minaccia ma, credo, si stiano anch’essi convincendo che i temi della conciliazione sono ineludibili.
Ovviamente anche nel loro caso si tratta di un passaggio non facile, perché ci si sposta dalla cosiddetta rappresentanza collettiva degli interessi all’individuazione di percorsi più personali. La categoria delle “mamme lavoratrici” comunque non è così ristretta, perché se si va a vedere quante donne hanno figli in un’industria tessile… Il fatto è che quest’ambito di intervento è da sempre poco sindacalizzato, le donne faticano ad autorappresentarsi all’interno della categoria. Quella della madre è una figura molto fragile e anche la rappresentanza è un po’ tutta da inventare. Però effettivamente, se prendiamo la banalità del part-time a rotazione, in fondo il sindacato potrebbe aiutare a standardizzare la procedura di valutazione delle richieste. Così come si potrebbe condurre una battaglia comune sulle spese per i nidi, affinché possano essere dedotte in busta paga. Perché non è consuetudine e pratica consolidata? Ecco, su questi, come su altri temi, l’accordo sindacale potrebbe dare un supporto.
Così come la contrattazione territoriale. Ma anche di questo non si può parlare. Invece la contrattazione di secondo livello è un’altra frontiera assolutamente interessante, che su Mantova ci consentirebbe di delineare una sorta di distretto family friendly, e uno degli strumenti potrebbe essere proprio un accordo sindacale al quale tutti potrebbero fare riferimento, casomai anche solo per due azioni, due iniziative…
Purtroppo questa contrattazione non piace né alle imprese, che temono un rafforzamento delle tutele, né ai sindacati, che temono un’eccessiva personalizzazione dei rapporti. In realtà alcuni interventi favorirebbero una convergenza di interessi. C’è anche da dire che i sindacati sono abituati a concepire accordi prescrittivi più che di assunzione di impegno in una certa direzione. Invece proprio questa potrebbe essere una modalità interessante per cominciare a incidere sul sistema.

Sono in atto degli esperimenti anche sui tempi della città…
La Regione Lombardia prevede che i comuni al di sopra dei 30.000 abitanti producano un documento strategico che è il piano territoriale degli orari. Il Comune di Mantova lo sta definendo in questi giorni. In particolare, attualmente è in corso una ricerca sui bisogni di conciliazione delle lavoratrici del commercio, in collaborazione con le associazioni di categoria dei commercianti, l’Università di Trento (Dipartimento di sociologia), per indagare quali siano le criticità di questa categoria che in questo momento è sotto pressione. Essendo Mantova una città turistica, una città d’arte, i commercianti sono alle prese con una pressante richiesta di flessibilizzazione, che di fatto significa un ampliamento dell’orario dell’esercizio commerciale. Se però consideriamo che nell’ambito del commercio la maggior parte delle imprenditrici, dipendenti, commesse sono donne con figli, si capisce subito il problema che si crea. Infatti la ricerca è tesa a individuare delle possibili soluzioni, che possono essere convenzioni con strutture del territorio, nidi, ludoteche, servizi di accudimento per i bambini.
L’obiettivo è quello di individuare dei macro obiettivi a livello provinciale per poi attivare i vari strumenti.
Uno può essere l’offerta di servizi alle imprenditrici del commercio, ma l’altro, strategico, è l’accessibilità dei servizi on-line. Pensiamo ai neogenitori, che non sono pochi: hanno una marea di ostacoli da superare. Oltre al disorientamento rispetto a tutta una serie di scelte: che orari potrà fare la mamma al rientro al lavoro, avrà le mansioni di prima, e poi, nella scelta della scuola materna, è meglio privilegiare l’aspetto educativo o la vicinanza a casa, meglio i nonni o l’asilo nido? E’ una fase assolutamente delicata. Il fatto che queste madri debbano poi andare fisicamente nei cinque nidi di riferimento per sapere come funzionano e non ci sia invece un luogo unico di accesso alle informazioni è un altro carico che si aggiunge. Per cui una delle idee in cantiere, in collaborazione con i comuni dell’alto mantovano e con le aziende, è una sorta di “portale del welfare”, per omogeneizzare il sistema informativo e offrire una possibilità di accesso alle informazioni un po’ più agevole.
Le tecnologie sono senz’altro uno strumento che può favorire la conciliazione.
Qual è il vostro ruolo in questo processo?

Noi ci siamo costituite come società alla fine del 2009 quindi abbiamo un anno di vita, ma di fatto collaboravamo già da qualche anno come libere professioniste proprio attorno all’art. 9. Siamo quattro socie e abbiamo due collaboratrici esterne a partita Iva e una dipendente, più un altro gruppetto di collaboratori che attiviamo su singoli progetti.
Il nostro interlocutore privilegiato è l’ente locale, nel senso che anche le aziende con cui abbiamo collaborato, per la gran parte sono state raggiunte attraverso la mediazione dell’ente locale. Il nostro lavoro come funziona? Noi innanzitutto studiamo la norma: quello che era successo con l’art.9 si sta replicando con la delibera regionale del 2010, che peraltro conosciamo molto bene perché la regione Lombardia ci ha coinvolte nella fase di stesura del piano attuativo regionale. Dopodiché le nostre competenze vengono valorizzate dall’ente locale che attraverso di noi raggiunge le aziende o comunque attiva quegli attori locali, pubblici e privati, che vanno attivati nella logica dell’intervento integrato.
Alcune azioni evidentemente vengono attivate dalle aziende autonomamente, come la concessione del part-time o la riorganizzazione interna, ma ci sono tutta un’altra serie di iniziative che presuppongono una concertazione, un dialogo, l’attivazione di una relazione con l’ente locale. Noi dunque ci posizioniamo lì nel mezzo e quindi quando siamo in azienda attiviamo il partenariato con l’ente locale e quando invece lavoriamo per l’ente locale il nostro obiettivo è di fargli avviare dei processi di sviluppo partecipativi di coinvolgimento degli attori del territorio. In entrambe le partite noi consideriamo le aziende, il mondo economico, assolutamente strategico, perché porta valore aggiunto e dà conto della complessità del tema.
L’ente locale, nel momento in cui coinvolge gli altri attori del territorio, individua quelle che sono le esperienze più importanti e le mette in rete e dovrebbe arrivare a darsi una programmazione degli interventi di cui ha bisogno.
Questo è quello che facciamo nell’ambito della conciliazione famiglia-lavoro. Dopodiché cerchiamo di attivare strumenti normativi e finanziari che vadano in soccorso delle aziende, delle associazioni, degli enti locali…
Quindi la domanda non parte necessariamente dall’azienda?

Per i primi art. 9 è partita dall’azienda. In un caso l’imprenditore e la consigliera di parità si conoscevano già, per cui è stata quest’ultima a suggerire: “Sai che esiste l’art. 9?”.
Ma in genere non è così. Se si parte dal presupposto che le aziende su questi temi non sono preparate e non hanno una cultura adeguata a comprendere i vantaggi che questi temi comportano, tutte le politiche vanno accompagnate da un processo locale, che deve essere governato dall’ente locale. Questo almeno sul target delle piccole medie. Le multinazionali fanno storia a sé. Quindi, ripeto, il nostro destinatario finale è l’azienda, ma l’interlocutore privilegiato è l’ente locale.
Lo stesso ente locale, poi, per programmare le politiche sociali, effettivamente deve dotarsi di strumenti adeguati. Ormai gli enti locali gestiscono direttamente pochissimi servizi. Il principio di sussidiarietà, che è stato sancito anche dall’Unione Europea, dice che l’intervento pubblico deve comunque essere portato al livello più vicino al cittadino, nel senso che lo Stato deve intervenire solo quando i singoli e i gruppi che compongono la società non sono in grado di farcela da soli. E quindi, dovendosi ricavare un ruolo soprattutto di governo delle politiche sociali e per la conciliazione famiglia-lavoro, promuovendo processi che siano inclusivi e trasversali, l’ente locale si avvale del nostro contributo tecnico nella programmazione della strategia, cioè della tabella di marcia, e nell’individuazione delle istituzioni e degli stakeholder, i vari portatori di interessi del territorio, che vanno fatti entrare nel percorso se si aspira a innescare un processo efficace.
Dicevi che la consigliera di parità e gli enti locali hanno assunto un ruolo propulsivo rispetto a questi strumenti poco noti alle aziende.
La consigliera di parità, quando ha visto che le aziende non accedevano ai fondi messi a disposizione per le politiche di conciliazione, ha pensato che l’unica soluzione fosse quella di andare a bussare alle varie ditte: “Guardate che c’è questo finanziamento”. E non è una metafora: alcuni assessori, e in primo luogo gli assessori al Lavoro e alle Pari Opportunità della Provincia di Mantova, ai quali va senza dubbio riconosciuto il merito di avere creduto nelle potenzialità dell’art. 9, hanno fatto proprio il porta a porta! E’ stata avviata anche una campagna di comunicazione.
Laddove l’ente locale si è limitato a dire: “Usate questo strumento che è bellissimo”, i risultati sono stati risibili. E’ comprensibile, quando le aziende si rivolgevano al tecnico, trattandosi di una progettazione complessa, si vedevano presentare preventivi molto impegnativi, e in cambio di cosa? Intanto non erano sicure che il progetto sarebbe stata approvato (e quindi finanziato) e, in più, all’azienda francamente di agevolare i propri dipendenti…..
L’ente locale mantovano ha adottato un approccio diverso: “Guardate, non preoccupatevi, ci pensiamo noi a formare i tecnici e pure a rimborsare parzialmente le spese di progettazione, se poi avete bisogno anche della gestione incaricherete gli esperti, comunque sappiate che ci sono persone che vi possono aiutare”. E’ stato decisivo!
A quel punto le aziende hanno iniziato a vedere che tecnicamente si poteva fare, che i fondi arrivavano e quindi si potevano fidare. Tanto più che la proposta non veniva dal sindacato, ma dalla Provincia, dalla Camera di Commercio ecc. Grazie a questo incoraggiamento, anche molto pratico, si è innescato un processo di emulazione virtuoso, fiduciario, anche rispetto a questa task force che veniva messa in campo.
Addirittura hanno accettato che la Consigliera di parità entrasse nel comitato di gestione, quindi che in qualche modo l’ente locale si intromettesse, anche se parzialmente, nelle loro politiche del personale. E’ stata la chiave di volta!
D’altra parte, se vogliamo raggiungere le aziende, se vogliamo che attivino delle politiche di welfare aziendale, che ridimensionino il malessere, che riducano i costi sociali, l’ente pubblico si deve assumere il compito di sensibilizzare e offrire quegli strumenti che le aziende, da sole, non sono in grado di procurarsi.
In questo senso, le politiche di conciliazione, per funzionare, devono essere integrate in un processo territoriale.

Hai parlato delle esperienze che sono andate a buon fine. Ci sono stati anche fallimenti?

I lati negativi? Sicuramente il fatto che le aziende accettino di implementare questi interventi perché intravvedono la possibilità di ritagliarsi dei margini economici. Questo, da un lato, è il motivo per cui siamo riusciti ad arrivare fin qui, ma dall’altro è quello per cui adesso fatichiamo tanto a fare il passo ulteriore. Purtroppo alle risorse ci si abitua… Da un anno e mezzo, i fondi legati all’art. 9 sono bloccati e, nonostante il Ministero prometta che ripartiranno, ancora non ci sono riscontri.
Una realtà come la nostra, un’azienda che lavora sui servizi per la conciliazione, su questo un po’ se la gioca. Ma la partita in realtà non riguarda solo noi. Cioè, noi siamo convinte che la logica -oggi prevalente- per cui l’ente locale manda un tecnico che procura delle risorse, se può avere avuto un senso nella fase iniziale, non può funzionare nel lungo periodo. Bisogna che la scelta delle politiche di conciliazione diventi un’opzione direi culturale. E attenzione: questo non significa che l’azienda ci perde. Anzi, l’azienda ci guadagna, ma deve investire, cosa che di questi tempi non è affatto semplice.
Comunque questa è una frontiera strategica che, secondo noi, ha un mercato.
Serve però un approccio di sistema. Cioè, un conto è provare a convincere un’azienda a operare dei cambiamenti, un conto è dire: “Guardate che così entrate in un network locale virtuoso, che è fatto di appuntamenti, di occasioni di ritrovo e di scambio di buone pratiche, di visibilità”. E’ ben diverso!
Un altro inconveniente è legato alle difficoltà di accompagnare un processo estremamente complesso, con tanti attori in gioco, ciascuno con delle aspettative, in cui si rischia costantemente di scontentare qualcun altro.
Ulteriore criticità è la tendenza, talvolta, all’autoreferenzialità delle istituzioni, l’incapacità di fare un passo indietro a favore di un passo avanti del processo complessivo. Talvolta l’impressione è che si sia persa di vista la ragione della propria esistenza. Si tratti dell’ente locale, delle associazioni sindacali o di categoria, in certe occasioni l’impressione è che la tutela della propria esistenza prevalga sul senso del proprio mandato, con il rischio di non sostenere dei processi perché non se ne vede un riscontro immediato. Per accompagnare questi percorsi servirebbe invece una grande maturità da parte di tutti, una piena disponibilità e forse anche un po’ di umiltà.
L’altra cosa non facile da gestire è il fatto che, nonostante la nostra sia una società di capitali, una Srl, tendiamo ad essere identificate come l’emanazione dell’ente locale.
Le aziende, il mercato, non riconoscono che la progettazione sociale, gli interventi sociali hanno un valore economico. Il fatto di provenire tutte dal “sociale” evidentemente non aiuta. In effetti, io provengo da una cooperativa per la quale mi sono occupata di progettazione, Stefania è psicologa, Cristina è laureata in scienze politiche e per anni ha lavorato sui temi dell’integrazione culturale, Simona è l’unica aziendalista però anche lei di cultura, tra virgolette, sociale. Insomma, smarcarci da quest’etichetta è un’impresa, appunto. Che poi, intendiamoci, a noi non pesa il fatto di essere, in qualche modo, degli operatori del sociale. Quello che ci pesa è l’idea -lo stereotipo- che questi temi non possano avere un mercato. Cioè continuano a vederci come le “brave ragazze”, pur essendo il nostro un vero e proprio progetto di business!
Abbiamo costituito una Srl perché vogliamo misurarci con il mercato. La conciliazione famiglia-lavoro non può rimanere appannaggio del volontarismo dell’imprenditore, non può essere relegata alla responsabilità sociale, all’etica, alla morale, al femminismo, alla filantropia. La nostra sfida è quella di riuscire a dare legittimazione al tema anche in termini economici. Valorizzare le risorse umane e il welfare aziendale sono strumenti per essere competitivi, quindi anche per fare profitto.
(a cura di Barbara Bertoncin)