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La questione della rappresentanza dei minori

La questione della rappresentanza dei minori

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Luigi Campiglio

Firenze, 26 novembre 2006

1. Equità ed efficienza dell’investimento sul futuro dei minorenni

La vita economica e sociale non inizia a 18 anni, come sembra essere implicito in molte decisioni politiche o analisi teoriche, ma molto prima, e senza dubbio almeno dal momento della nascita. Dal punto di vista sociale l’impegno di risorse pubbliche e private sulla qualità di vita dei bambini e delle famiglie in cui vivono ha le caratteristiche speciali di un investimento irreversibile e scarsamente sostituibile: la mancanza di nutrimento o di affetti nei primi anni vita può produrre carenze o problemi a cui a cui è difficile porre rimedio e quando ciò avviene l’investimento compensativo richiesto è di molto superiore a quello che inizialmente si sarebbe potuto e dovuto realizzare. La questione è recentemente emersa con grande evidenza nell’ambito della Banca Mondiale (World Development Report, 2006, 132), nel cui ambito numerosi studi hanno documentato l’importanza centrale dello sviluppo umano in età precoce (early childhood development – ECD) per quanto riguarda i paesi emergenti: ad esempio una recente ricerca (Paxson e Schady, 2005) su un campioni di bambini dell’Ecuador dimostra l’associazione fra abilità di linguaggio e fattori economici e sociali come la ricchezza e l’istruzione dei genitori, con effetti cumulativi nel tempo, la bassa emoglobina nel sangue, e il grado di “risposta” dei genitori nei confronti dei figli. La stessa questione dell’intervento precoce emerge tuttavia con evidenza anche da alcuni studi per i paesi avanzati: ad esempio un risultato comune negli studi americani è il legame fra situazione socio-economica (SES) e abilità cognitiva, il che porta al centro il problema dei minorenni che vivono in famiglie con difficoltà economiche, quando non povere. Come dimostra Heckman, premio Nobel 2000 per l’economia, l’intervento precoce – fino ai 5 anni – migliora la successiva istruzione scolastica formale, promuove la produttività e riduce la criminalità: gli investimenti in interventi precoci hanno elevati rapporti benefici-costi ed alti tassi di rendimento, mentre per i più svantaggiati l’intervento precoce e preventivo ha un rendimento di molto superiore a quello successivo (Heckman e Masterov, 2004). L’investimento sui minorenni è uno dei rari esempi economici per i quali l’equità sociale si accompagna all’efficienza economica, anziché rappresentarne un’alternativa. In Italia la percentuale di famiglie con minori che vivono in condizioni di difficoltà economica (o povertà relativa) è, nel 2004, del 10,6 percento per la famiglie con un figlio minore, del 16,9 per le famiglie con 2 figli minori e del 26,1 per le famiglie con 3 figli minori, con un lieve aumento rispetto al 2003. Nel 2003 la percentuale di minori in condizioni di povertà in Italia era fra le più elevate al mondo, e per di più in crescita. Queste statistiche devono essere interpretate nel loro significato economico e sociale: esse segnalano l’ampiezza e la rilevanza di “generazioni perse”, perché chi è oggi è bambino perde il suo momento, non avendo il tempo per attendere i tempi del risanamento pubblico dell’Italia. Lo spreco di risorse umane giovanili, così sistematico nel nostro paese, porta perciò a un rallentamento della crescita della produttività e della crescita del prodotto potenziale, a cui si accompagna la crescente tensione nella distribuzione delle risorse fra le generazioni, in particolare fra chi lavora e chi è pensionato. L’ingegneria finanzia può attenuare questo dilemma, se i fondi pensioni investono in paesi giovani e in crescita, ma difficilmente potrà risolvere il problema: questa consapevolezza è diffusa in paesi che dovranno affrontare in futuro il problema, come gli Stati Uniti (Kotlikoff e Burns,2004), ma è invece ignorato in Italia, che già vive questi dilemmi generazionali. Parafrasando un celebre e irriverente battuta rivolta a Bush padre all’inizio degli anni ’90 nel duello con Clinton dovremmo ricordare alla classe dirigente italiana, quando si interroga sull’origine dei nostri problemi, che la questione vera “sono i bambini, …”.

2. La questione dei minori nelle grandi democrazie occidentali

I paesi nei quali è più bassa la povertà fra i minori sono, secondo l’Unicef, la Danimarca, la Finlandia, la Norvegia, la Svezia, la Svizzera: si tratta di Stati minori dal punto di vista della popolazione e che quindi sono in grado di valutare in modo più diretto e ravvicinato le conseguenze economiche e sociali che derivano dal trascurare la generazione giovanile. Questi sono anche paesi nei quali è maggiore il ruolo delle donne in posizioni di potere ministeriale. Fra i grandi paesi è appena sostenibile la situazione per Francia e Germania, mentre è decisamente peggiore per Regno Unito e Stati Uniti, i quali tuttavia registrano un deciso miglioramento nel corso degli anni ’90. Ciò non è stato il risultato di una dinamica esogena, ma di una deliberata azione di politica economica e sociale. Nel Regno Unito la decisione strategica fu presa da Tony Blair in uno discorso rivolto ai sindacati nel marzo del 1999 – due anni dopo la sua vittoria – quando prese di sorpresa il suo auditorio annunciando l’obiettivo di eliminare la povertà infantile di un quarto nel 2004-05, di metà nel 2010-2011 e del tutto in 20 anni (The Economist, giugno 2006). Come sottolinea l’Economist la riduzione del numero di minori in povertà è stata “impressive” – circa 700 mila – e anche se si tratta di un risultato inferiore a quello programmato come primo obiettivo intermedio è ugualmente un risultato rimarchevole, soprattutto in quanto si tratta di risultato di un obiettivo pubblicamente dichiarato. Secondo gli studi condotti un’ulteriore riduzione della povertà infantile potrebbe essere favorita, nel caso britannico, dall’incentivare l’occupazione per entrambi i genitori: la condizione sociale dei minori non è quindi solo un problema in sé ma rappresenta un segnale del grado di disagio economico e sociale di un paese. Anche negli Stati Uniti il tasso di povertà infantile è su livelli elevati, ma in forte diminuzione negli anni ’90, quando il presidente Clinton, raddoppiò il credito d’imposta per le famiglie con figli (Earned Income Tax Credit – EITC): in effetti il tasso di povertà fra i minorenni è sceso del 22 percento nel 1993 fino al 15,6 percento nel 2000, per poi risalire al 17,1 percento nel 2005 (con l’amministrazione Bush). Nello stesso periodo il tasso di povertà fra le persone con più di 65 anni è rimasto costante, intorno al 10 percento. L’esperienza di Blair e Clinton dimostra due fatti: il primo è la possibilità che un leader politico si preoccupi seriamente del futuro delle generazioni più giovani, il secondo è che entrambi hanno conseguito un successo limitato e reversibile. Il problema è che, come già aveva intuito John Stuart Mill, “per quanto i governanti siano onestamente disposti, essi sono in genere troppo occupati con questioni di cui “devono” occuparsi per avere abbastanza spazio nei loro pensieri per tutto ciò che possono senza danno trascurare”. E’ difficile pensare che in grandi paesi di democrazia avanzata la riduzione della povertà infantile possa avvenire senza che in qualche modo gli interessi dei minorenni non entrino nel gioco della competizione elettorale. Ciò vale a maggiore ragione per quanto riguarda l’esigenza di un riequilibrio nella distribuzione delle risorse, a favore delle generazioni più giovani, in modo da favorire attraverso una maggiore crescita futura la sostenibilità interna del sistema pensionistico. Ma è difficile pensare che la il sistema politico rivolga il medesimo grado di attenzione agli anziani che votano e ai minorenni che non votano: riecheggiando il problema sollevato da John Stuart Mill, L’Economist osserva che “i partiti politici, essendo nel mercato dei voti, non possono essere del tutto biasimati per il fatto di porre le richieste degli anziani prima di quelle dei giovani. Ma è un comportamento miope, non sano per la democrazia e altresì sbagliato in sé” (The Economist, 2006, 28 ottobre, 52). Inoltre un’approfondita analisi dell’attitudine all’eredità della popolazione britannica mette in evidenza l’ambiguo rapporto fra edonistici anziani SKIers (Spending their Kid’s Inehritance) e prudenti anziani OWLS (Older people Withdrawing Loot Sensibly): il rapporto sottolinea come circa due terzi dei potenziali testatori dichiarino di preferire spendere per il godimento della propria vita senza preoccuparsi troppo di lasciare un’eredità (Rowentree e McKay, 2005, 38). E’ quindi reale il rischio che, senza un intervento pubblico riequilibratore, la distribuzione delle risorse fra generazioni penalizzi ancora di più quelle più giovani.
Danimarca, Finlandia e Norvegia hanno virtualmente eliminato la povertà infantile, ma ciò rispecchia forse la maggiore attenzione e informazione delle democrazie di piccole dimensioni ai problemi dei cittadini: la popolazione di questi tre Stati era di 5,4 milioni in Danimarca 5,2 milioni in Finlandia e 4,6 milioni in Norvegia, rispetto a 9,4 milioni in Lombardia, 3,6 milioni in Toscana e 5,8 milioni Campania. La politica sembra perciò avere la capacità di guardare all’interesse lontano solo nel caso in cui la dimensione dello Stato sia limitata e dove quindi il problema della continuità nel tempo, che i giovani rappresentano, appaia nella sua esplicita evidenza, mentre sembra invece sfuggire agli sforzi e alla lungimiranza di leader politici come Blair e Clinton, oltre che alla classe politica italiana.

3. L’interesse generale dei minori e la minimizzazione del costo della rappresentanza politica.

Il principio della competenza, cioè l’essere sufficientemente qualificati “a partecipare alla formulazione delle decisioni collettive vincolanti” è, secondo Dahl (1989; trad. it. 1997, 139) la ragione fondamentale per l’esclusione dei minorenni dal demo (e quindi dal diritto di voto). Si potrebbe obiettare con Platone, nel dialogo fra Clinia e un ateniese, su quale possa essere mai il valore di una legge per l’infanzia approvata dall’assemblea (la boulé) in assenza della partecipazione dei fanciulli ateniesi (Resta 1998; 46), quando ci si muova dal presupposto che qualunque decisione politica di rilievo che riguardi l’universo dei cittadini debba coinvolgere necessariamente anche i minorenni. L’argomento della competenza non convince sia per ragioni qualitative, perché pochi sono i cittadini che hanno un’opinione precisa di qualunque questione pubblica anche quando siano indirettamente coinvolti, sia per ragioni quantitative perché così come il principio della democrazia diretta si dissolve oltre una certa soglia dimensionale, anche il principio della competenza cede il posto alla principio della rappresentanza, peraltro fondamento di ogni democrazia, per ragioni di complessità decisionale, quando la dimensione della comunità superi un certo limite. Il principio della rappresentanza porta con sé, inevitabilmente, il problema di individuare quali siano gli interessi rappresentati nonchè il potenziale conflitto fra interessi del rappresentante e del rappresentato. L’esistenza dei minorenni pone un problema sulla modalità politiche di rappresentanza dei loro interessi, perché la loro esclusione dal demo, in nome della capacità di partecipazione, porta all’inaccettabile esito dell’esclusione anche dei loro interessi, con gli squilibri che si osservano in tutte le grandi democrazie occidentali. La questione è particolarmente delicata per il fatto che i minorenni non rappresentano un interesse particolare, quanto piuttosto l’interesse generale di intere generazioni, le quali rappresentano in senso pieno il significato alto della politica e il suo futuro. Il conflitto di interessi fra rappresentante e rappresentato non può essere eliminato ma solo minimizzato e quindi il criterio di minimizzare il costo della rappresentanza politica rappresenta il criterio guida e centrale per anche l’interesse generale dei minorenni nell’interesse generale della società: l’esclusione dei minorenni dall’interesse della società rende quest’ultimo un interesse parziale anziché generale, con un costo sociale e di democrazia di cui il grave problema della povertà infantile è solo una delle conseguenze, oltre che un segnale. In altre parole l’esclusione dei minorenni dal voto sulla base del principio della competenza aumenta, anziché ridurre, il costo della rappresentanza politica, attenuato solo nelle democrazie di minori dimensioni. Nel rapporto di rappresentanza l’agente, ad esempio il politico, dovrebbe effettuare le scelte “come se” i suoi interessi coincidessero con quelli del rappresentato: il cittadino può esprimere la sua insoddisfazione rispetto alla rappresentanza politica al governo cambiando le sue scelte elettorali, ma anche il meccanismo della competizione politica è debole se l’intera classe politica rappresenta in modo inadeguato i cittadini. Sono questi i costi della rappresentanza che occorre minimizzare. Nel caso dei minori, che non possono partecipare direttamente al processo elettivo, il problema è il medesimo, e si tratta di individuare il soggetto che meglio può rappresentare l’interesse dei minori, così come la classe politica rappresenta l’interesse dei cittadini adulti. I genitori sono, per legge e norma sociale, le persone che già rappresentano l’interesse dei minori nella totalità della loro vita e quindi sono anche coloro che, in modo naturale, possono rappresentare i loro interessi nell’arena politica e quindi nel voto. Fra i due genitori, la madre, quando presente, è forse la persona che può ulteriormente minimizzare il costo della rappresentanza dei minori, nel senso di interpretare più fedelmente le loro esigenze e realizzare una reale eguaglianza di opportunità fin dal momento della nascita (Campiglio, 2005). Perseguire “the best interests of the child” – i miglior interessi del bambino – come indicato dalla convenzione del 1989 sui diritti del bambino, rischia di diventare un obiettivo di impossibile realizzazione se non si accompagna a un sistema di incentivi e soprattutto vincoli che indirizzi l’azione del potere politico. Non vi è attualmente alcuna sanzione politica se tale obiettivo non viene realizzato e di conseguenza aumenta di molto la probabilità che tale rischio diventi certezza. Ma il concetto di “migliori interessi del bambino” è, a ben guardare problematico e da qualificare: il carattere di irreversibilità e scarsa sostituibilità dell’investimento sui bambini solleva il delicato problema del che fare di fronte all’inazione e, nel caso di azione, rispetto al fatto che le decisioni umane, e quindi anche quelle dei genitori, sono fallibili e quindi soggette ad errori. La responsabilità per l’errore commesso dai genitori ricade prima di tutto sui figli, e poi anche sui genitori che devono fare i conti con sè stessi, le ragioni del dopo e del fatto compiuto. L’eguaglianza delle opportunità non è un obiettivo puntuale, ma un progetto di crescita umana ed educativa che accompagna il bambino dal momento della nascita fino alla sua iniziazione civile, con l’ingresso nel mercato del lavoro, e richiede perciò una responsabilità della famiglia così come della società. Il riconoscimento degli interessi generali dei minori non può che portare a una loro rappresentanza politica, trasformando dei sudditi in cittadini.
Bibliografia.

Campiglio L. (2005) « Prima le donne e i bambini. Chi rappresenta i minorenni ?” Il Mulino

Dahl R. D. (1989) „Democracy and Its Critics“, New Haven, CT, Yale University Press; trad. it. “La democrazia e i suoi critici”, Roma, Editori Riuniti, 1997

Heckman J. e Masterov D. (2004) « Productivity Argument for Investing in Young Children” Working Paper 5, Investing in Kids Working Group, Committee for Economic Development

Kotlikoff L. e Burns S. (2004) “The coming generational storm”, The MIT Press

Paxson C. e Schady N. (2005) „Cognitive Development Among Young Children in Ecuador: the Role of Wealth, Health and Parenting”

Resta E. (1998) “L’infanzia ferita”, Laterza

Rowentree K. E McKay (2005) “Attitude to inheritance in Britain”, Joseph Rowentree Foundation

The Economist (2006) “In defence of the young. Paying too much attention to the demands of the elederly is dangerous for society”, 28 ottobre-3 novembre

The Economist (2006) “A long way to go. Fighting child poverty”, 17-23 giugno

World Development Report ( 2006) “Equity and Development”
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Prof. Luigi Campiglio