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Famiglie che non fanno notizia

Famiglie che non fanno notizia

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Il racconto di due esperienze ordinarie di vita di coppia La scelta di vivere lontano dalla città, la bellezza di educare i figli
Mentre l’assemblea del Sinodo concentrava nuovamente la sua attenzione sulla famiglia come «luogo delle forme primarie delle relazioni umane», noi abbiamo deciso di dare spazio a quelle che – secondo un certo lessico giornalistico – sarebbero delle «non-notizie»: di intervistare cioè due famiglie decisamente ordinarie, discretamente felici, che si staccano dalla media italiana solo per il fatto di essere un po’ più prolifiche (ciascuna ha quattro figli).
Monica e Luca
A Luca e a Monica, rispettivamente di 43 e 41 anni, abbiamo chiesto di spiegarci la loro scelta di trasferirsi, per metter su casa, da Bergamo a San Giovanni Bianco, in località Sentino, abbastanza lontana dal centro del paese, e di crescere «lassù» i loro bambini; Franco (65 anni) e Carla (53) – in questo caso abbiamo fatto ricorso a dei nomi fittizi – ci hanno invece parlato del «valore aggiunto», in termini umani più che finanziari, del vivere insieme in una casa piuttosto affollata. Diamo per primo la parola a Luca. «All’epoca del nostro fidanzamento – esordisce –, Monica e io condividevamo con un gruppo di amici l’idea di formare una “comunità”, di trovare un luogo in campagna o in montagna in cui poter coltivare dei rapporti un po’ meno formali rispetto all’ambiente urbano. A un certo punto, siamo rimasti da soli a perseguire questo progetto, anche se i rapporti con quei nostri amici sono comunque rimasti buoni: così, abbiamo acquistato per conto nostro una vecchia casa con attorno un terreno e l’abbiamo ristrutturata per gradi, secondo le nostre possibilità. In fondo, anche se l’idea della comunità non si è realizzata come l’avevamo pensata all’inizio, siamo molto grati a quell’impulso iniziale: ora viviamo a contatto con la natura, coltiviamo more e lamponi, abbiamo dei rapporti cordiali con gli altri abitanti (siamo 24 in tutto!) di Sentino. Abbiamo ricevuto molto, in cambio di alcuni sacrifici: io, ad esempio, percorro 90 chilometri al giorno per andare e tornare dal lavoro, e Monica ha smesso di insegnare religione per dedicarsi a tempo pieno ai figli, anche perché quassù non poteva godere quotidianamente dell’aiuto dei suoi».
L’idea di trasferirvi in un luogo un po’ fuori mano, e di dover far conto soprattutto sulle vostre forze, non vi ha spaventato? «Diciamo che – risponde Monica – non ci siamo lasciati sopraffare dai timori. Le difficoltà sono state superate con l’entusiasmo, per il fatto che io e Luca condividevamo il medesimo progetto: magari equilibrandoci a vicenda, perché lui ha un temperamento più concreto, mentre io sono propensa ai grandi slanci ideali. In questi giorni, ad esempio, sono impaziente che arrivino degli asini, in aggiunta agli animali da corte che abbiamo già: mi sono iscritta ai coltivatori diretti, e ho seguito il corso per poter aprire una “fattoria didattica”». «Per il resto – prosegue –, abbiamo scoperto che di molte cose si può fare a meno: i primi anni non avevamo nemmeno la tv, per scelta, perché volevamo provare a trascorrere le serate diversamente, parlando, o anche ascoltando insieme la radio. Le prime trasmissioni televisive, nella casa di Sentino, le abbiamo viste l’11 settembre 2001».
Proprio un giorno buono, per esordire come telespettatori… «Eh, sì. Avevamo sentito che era successo qualcosa di grave e ci siamo arrangiati per poter vedere qualcosa con un’antenna portatile. Ma tornando al carattere relativo di certi sacrifici: abbiamo scoperto che molte spese derivano semplicemente dal fatto di svolgere un certo lavoro d’ufficio, in centro città; se si torna a casa alla sera, è inevitabile che si comprino i cibi già pronti, piuttosto che preparare da sé i ravioli; ed è anche necessario mettersi ogni giorno in tiro, con abiti più o meno nuovi. Noi invece ricorriamo spesso a un “mercatino informale” di giocattoli e abiti di seconda mano, che abbiamo inaugurato con la sezione bergamasca dell’associazione famiglie numerose: ci troviamo una volta al mese, a Bergamo, al Monterosso, ed è un’occasione per confrontarci, per scambiarci consigli e anche un po’ di aiuto materiale».
Voi, il vostro «stare insieme» lo avete vissuto fin dall’inizio in un’ottica di fede, giusto? «Sì – risponde Luca –, l’aspetto delle convinzioni religiose è stato sicuramente importante. Nel messaggio cristiano rientra l’idea della condivisione, e ci è parso naturale e bello tradurre questo principio nella decisione di avere dei figli, e anche presto. Con tutto il rispetto per le singole situazioni, io faccio fatica a capire quelle coppie che volontariamente non mettono al mondo dei bambini: mi pare che manchi loro qualcosa, perché si possano considerare in senso pieno una “famiglia”».

Carla e Franco
A differenza di Monica e Luca, Carla e Franco hanno sempre abitato a Bergamo: lei era assistente sociale, e ora fa la moglie e la madre full time; lui, psicologo, è specializzato nella terapia di nuclei familiari «conflittuali». Come avete preso, all’epoca, la decisione di formare una famiglia? «Intanto – spiega Franco –, c’era in me la voglia di stare con Carla: alla base di tutto è il legame di coppia che si era stabilito tra noi. Poi, benché io avessi già superato la quarantina quando ci siamo sposati, condividevamo l’idea di formare una famiglia numerosa. Non abbiamo desistito nemmeno quando il nostro primogenito ha evidenziato da subito dei problemi di salute: abbiamo semplicemente atteso un paio d’anni per mettere al mondo un’altra bambina, e nel frattempo ci siamo dedicati completamente a lui. Poi sono venuti, a distanza di tempo, gli altri figli. Abbiamo affrontato le gravidanze in modo abbastanza sereno, senza che Carla si sottoponesse a troppi test diagnostici: intanto, sapevamo già che non avremmo rinunciato a questi bambini, anche se in età prenatale si fossero evidenziati dei problemi; inoltre, avevamo sotto gli occhi l’esempio del nostro primo, che – nonostante le difficoltà – è divenuto a tutti gli effetti, con molta naturalezza, un membro attivo della nostra famiglia».
Ma un atteggiamento come il vostro è ancora diffuso tra le giovani coppie? Perché l’arrivo di un figlio comporta il fatto di dover soprassedere per un po’ al rito dell’happy hour nei bar del centro, di dover rinunciare a qualche fine settimana sugli sci… «Non sono un sociologo – risponde Franco – e non saprei dire con esattezza quali desideri abbiano oggi le giovani coppie che decidono di sposarsi o di convivere. Per quanto mi riguarda ha probabilmente inciso il fatto, come dicevo, che sia giunto all’altare un po’ in su con gli anni: avevo dei progetti “realistici”, incentrati soprattutto sul versante dell’affettività e della quotidianità. Desideravo – come poi è avvenuto – avere dei bambini per casa, sedermi a tavola con mia moglie e i miei figli, scherzare con loro».
«E tuttavia – chiarisce Carla –, occorre che si dia anche un po’ credito ai sogni, perché altrimenti, ragionando solo in termini di convenienza materiale, nessuno si sposerebbe. L’essenziale è che quando si incontrano delle difficoltà la coppia rimanga coesa, le affronti insieme. Per quanto mi concerne, io facevo l’assistente sociale, un lavoro che mi piaceva molto: dopo la nascita del terzo bambino, però, sono rimasta a casa, perché ho constatato l’oggettiva impossibilità di conciliare la professione con il ruolo di madre in una famiglia, diciamo così, “impegnativa”…» (mentre parla, uno dei figli la interrompe per chiederle di aiutarlo a cercare un manuale scolastico, ndr. ). Chiediamo in ultimo, a Franco, che cosa abbia appreso dalle coppie «pericolanti», o già «deflagrate», che incontra quotidianamente nel suo lavoro. «Ho imparato – dice – a evitare alcuni sbagli, a non dare vita a quei “cortocircuiti” che rendono alcune coppie costantemente conflittuali. Tra i genitori capita, ad esempio, che uno dei due assuma un ruolo “assoluto”, gestendo solo dal suo punto di vista il rapporto con i figli, senza capire che il partner, per il fatto di avere uno stile educativo differente, non è necessariamente inadeguato. Personalmente, cerco di relativizzare un po’ la mia prospettiva: qualche volta è anche divertente, rilassante, il fatto di affidarsi un po’ a Carla, di lasciare che sia lei a far valere la sua idea». «Ma pensa!», interviene la moglie, sorridendo. «In realtà, nel rispetto reciproco, si possono anche mantenere alcune disparità di vedute. Io, ad esempio, prima di sposarmi, ero convinta che esistesse grossomodo solo un metodo per l’educazione dei figli, quello praticato nella mia famiglia d’origine, decisamente “direttivo”. Tuttora penso che certe cose i figli le dovrebbero fare immediatamente, semplicemente perché lo si dice loro; Franco, invece, pensa che l’importante sia fornire un esempio, e che il resto verrà da sé, sul medio periodo. Al di là di tutto, comunque, abbiamo chiara un’idea: non ci smentiremo mai a vicenda in presenza dei ragazzi, e ancor meno consentiremo loro di fare qualcosa all’insaputa dell’altro genitore».
Eco di Bergamo
Giulio Brotti