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La temerarietà d’esser mamma

La temerarietà d’esser mamma

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Le notti delle madri sono, di tanto in tanto, popolate da incubi. Sequenze da film dell’orrore che affiorano dall’inconscio, quasi a esorcizzare il terrore più grande: quello di perdere un figlio in una disgrazia, di fargli del male o di vederlo portar via da gente cattiva. Sono paure profonde, che purtroppo, talvolta, trovano drammaticamente riscontro nella realtà.
Quanto è avvenuto venerdì mattina a Merate, con la morte della piccola Maria, lasciata in auto dalla mamma nel parcheggio della scuola, è uno degli episodi che più ci interpellano fra quelli che la cronaca ci ha consegnato. Perché qui non si tratta di un incidente dovuto all’incoscienza di un pirata, impossibile da prevedere; o dell’efferatezza di un piano criminale come quello per cui ha perso la vita un bimbo come Tommy; non è il caso di una madre che uccide con le proprie mani un figlio essendone più o meno consapevole. Qui si tratta di una bimba morta per una dimenticanza.
La vicenda è ormai nota nei suoi dettagli, raccontati dalla stessa donna, insegnante di liceo e mamma di altri due figli: «L’ho dimenticata», ha continuato a ripetere agli inquirenti. E non c’è motivo di dubitare della sua sincerità. Quella mattina era stata incaricata di svolgere un’ora di supplenza prima dell’orario solito. Era uscita di casa che non erano ancora le otto, con la bimba sul seggiolino posteriore dell’auto. Pochi minuti dopo l’avrebbe consegnata, come ogni giorno, alla baby sitter. Gesti abitudinari, fatti sempre di corsa con mille pensieri per la testa: i figli più grandi, il marito, gli studenti, la casa da mandare avanti. Ed ecco che la bimba si addormenta e la mamma tira dritto fino a scuola: subito in aula, perché è responsabilità di un’insegnante che la classe non resti scoperta.

Il marito l’ha raggiunta al telefono della scuola quando era l’una passata, allarmato perché tornando a casa sulla segreteria telefonica c’erano numerose chiamate della tata. «Dov’è Maria?». È a quel punto che per questa donna il mondo è crollato. «Prima di crocifiggere come madre snaturata la signora di Lecco vorrei che pensassimo a tutte le volte in cui sarebbe potuto succedere alle tantissime donne che ne condividono la vita», ha scritto Massimo Gramellini sulla Stampa. Praticamente a ogni donna che ha il coraggio di mettere al mondo dei figli; madri che si trovano a sostenere, oltre alla responsabilità della famiglia, anche quella di un lavoro, senza in alcuni casi potersi permettere consistenti aiuti domestici. C’è qualcosa di eroico nelle loro giornate. Dal mattino, quando svegliano i bambini, preparano la colazione, si preoccupano dei vestiti e dell’igiene («tornate indietro a lavarvi i denti») e controllano se c’è la merendina nello zainetto, fino alle sera, quando abbassano le tapparelle ripassando per l’ultima volta le tabelline e i versi della poesia, fra le proteste dei figli che non vogliono andare a dormire.
Quando poi i figli sono tre, come nel caso della signora Simona, il mattino deve essere un momento particolarmente critico: spediti i più grandi a scuola, resta da preparare il più piccolo, quello che fa letteralmente perdere la testa, perché è affettuoso, tenero, furbissimo, non vuole alzarsi e le inventa tutte per tirare in lungo e non staccarsi dalla mamma, che nel frattempo deve a sua volta avere tutto pronto per presentarsi come si conviene al lavoro. Comincia così la «seconda giornata», dedicata agli impegni e alle responsabilità che ogni professione richiede.
Poi c’è «la terza», con i figli da passare a riprendere e il pranzo da preparare; la «quarta» con le attività pomeridiane, dai compiti al catechismo a qualche attività sportiva. E verso sera c’è il marito che torna e dà una mano, ma bisogna pensare alla cena e a preparare l’occorrente per il giorno dopo. Nessuno lavora più di una mamma. «Prima di crocifiggere come madre snaturata la signora di Lecco – conclude Gramellini –, vorrei che ringraziassimo il destino perché ha il pudore di tramutarsi in dramma così di rado. Altrimenti il ritmo dissennato delle nostre vite provocherebbe ogni giorno una carneficina». Mettere al mondo figli in una società tanto frenetica e competitiva sembra diventata una sfida impossibile, che rasenta la temerarietà. Il prezzo da pagare è altissimo e la tragedia di Merate è lì a ricordarcelo.
Ma un Paese che non sostiene le famiglie nel loro compito e nelle loro fatiche ha già rinunciato al futuro.
Ettore Ongis, Eco di Bergamo