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EUROPA 2050: MENO BAMBINI PIU’ LUPI

EUROPA 2050: MENO BAMBINI PIU’ LUPI

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di Guglielmo Piombini

I ricercatori del Berlin Institute for Population and Development hanno realizzato, in collaborazione con la rivista naturalistica Geo, un importante studio di 368 pagine sulle prospettive demografiche dell’Europa, intitolato Europe’s Demographic Future. Growing Imbalances (“Il futuro demografico dell’Europa. Squilibri crescenti”). Sul sito dell’istituto è disponibile una sintesi in inglese in 16 pagine, che anticipa i punti più rilevanti dell’indagine.

I bassi tassi di fertilità, l’invecchiamento delle popolazioni e il crescente numero di immigrati provenienti da altre regioni del mondo sono i fattori che, secondo i ricercatori tedeschi, cambieranno il volto dell’Europa nel corso dei prossimi decenni. Questi processi toccheranno il loro zenith fra 30 o 40 anni, e la loro inversione sembra per ora improbabile.

In realtà l’invecchiamento e la riduzione della natalità sono un fenomeno globale, ma gli effetti si faranno sentire prima nelle zone geografiche che hanno fatto da apripista, l’Europa e la Russia, dove queste tendenze sono in corso da decenni. In tutte le altre aree del mondo gli attuali tassi di natalità, sebbene calanti, garantiranno infatti un aumento della popolazione da qui alla metà del secolo.

Il rapporto dell’istituto berlinese prevede che, nel periodo 2007-2050, gli abitanti degli Stati Uniti e del Canada cresceranno del 30,7 %, da 335 a 438 milioni; quelli dell’America Latina e dei Caraibi aumenteranno del 37,6 %, passando da 569 a 783 milioni; gli abitanti dell’Asia passeranno da 4 miliardi a 5 miliardi e duecentomila, con un aumento del 30,1 %; l’Africa vedrà addirittura più che raddoppiare la propria popolazione, da 944 milioni a 1.937 milioni, con una crescita del 105,2 %. Per contro, l’Europa del 2050 avrà l’8,3 % di abitanti in meno rispetto ad oggi, calando da 591 a 542 milioni; nella Russia la riduzione sarà ancor più marcata, dato che gli abitanti scenderanno da 142 a 112 milioni, con una differenza negativa del 21,1 %.

Attualmente nessun paese europeo arriva al tasso naturale di sostituzione della popolazione di 2,1 figli per donna, che serve a mantenere stabile la popolazione nel tempo. La media europea è di 1,5 figli per donna, e questo significa che ogni nuova generazione si riduce del 25 % rispetto a quella precedente. Se a questo dato si aggiunge quello dell’invecchiamento, che vede da qui al 2050 un aumento degli ultrasessantacinquenni dal 16 % al 28 % del totale, con un innalzamento dell’età media di quasi 10 anni (da 39 a 47 anni), le prospettive dell’Europa si fanno drammatiche. Il numero calante delle persone in età lavorativa, combinato con l’aumento delle spese pensionistiche e sanitarie destinate alla crescente popolazione anziana, renderà sempre più difficile all’Europa competere con le altre regioni del mondo.

Il rapporto, che valuta la sostenibilità demografica di 285 regioni d’Europa sulla base di 24 indicatori demografici, economici, sociali e ambientali, osserva che i tassi di fertilità sono distribuiti in maniera piuttosto diseguale all’interno del continente. Si va infatti dai quasi 2 figli per donna dell’Islanda, dell’Irlanda e della Francia agli 1,2 figli per donna delle regioni più depresse dell’Europa dell’est, della Spagna del nord o dell’Italia del sud, nelle quali, afferma il direttore dell’istituto Reiner Klingholz, sarà impossibile impedire il completo spopolamento di molti centri rurali, dove i lupi e le foreste stanno già facendo ritorno.

La ricerca presenta dunque una diagnosi molto realistica sulla grave situazione demografica del vecchio continente, e riconosce l’esistenza di una crisi dovuta al calo e all’invecchiamento della popolazione. Ma quali ne sono le cause, e quali rimedi vengono proposti? Nello sforzo di non contraddire l’ortodossia progressista dominante, le risposte degli esperti di popolazione del Berlin Institute appaiono eccessivamente condizionate dal “politicamente corretto”. Lo studio propone, in sostanza, di far fronte alla crisi demografica incoraggiando da un lato l’immigrazione, e dall’altro una maggiore “eguaglianza di genere” nel mondo del lavoro: «L’immigrazione è necessaria, e non c’è alternativa», afferma Reiner Klingholz, portando come esempi positivi l’Irlanda e la Gran Bretagna.

C’è qualcosa di paradossale nell’idea che solo l’immigrazione di massa possa tenere in piedi l’economia dell’Europa, perché proviene da quello stesso campo progressista che, fino a qualche tempo fa, si batteva per il controllo delle nascite e in favore di politiche denataliste con il pretesto che eravamo già in troppi. Oggi si sono accorti che il calo delle nascite ha provocato dei vuoti paurosi nell’economia, e tentano di rimediare ripopolando freneticamente il vecchio continente con popolazioni aventi culture aliene, e talvolta apertamente ostili, a quelle dei paesi ospitanti.

I curatori del rapporto, inoltre, si rifiutano di mettere in correlazione la crisi demografica dell’Europa con la distruzione dell’istituto familiare avvenuto dal Sessantotto in poi. «Non ha assolutamente senso demografico – affermano i ricercatori – riproporre le strutture della famiglia tradizionale. Al contrario, più uguaglianza viene offerta agli uomini e alle donne sul posto di lavoro, più figli nascono. Oltre la metà dei bambini nati in Svezia, Norvegia e Francia, tutti e tre paesi con alti tassi di natalità, nascono fuori dal matrimonio. In Islanda questa percentuale arriva al 65 %. I tassi di natalità declinanti degli ultimi decenni sono strettamente collegati al cambiamento del ruolo della donna nella società, perché a partire dagli anni Sessanta le donne hanno avuto uguali possibilità di accesso all’istruzione. Queste donne oggi sono interessate alla carriera e allo stipendio, e hanno un numero apprezzabile di figli solo nei paesi che permettono a entrambi i genitori di conciliare lavoro e famiglia».

Viene dunque esaltato un modello sociale e familiare, basato sul sostegno statale ai genitori che lavorano (sotto forma di asili nido, scuole, sussidi), e sull’equiparazione fra tutti i tipi di unione (matrimoniali e non), che in realtà non ha prodotto gli effetti voluti: in Svezia il tasso di natalità è in calo continuo dagli anni Novanta, mentre in Francia e in Gran Bretagna il tasso di natalità superiore alla media europea sembra dovuto in larga misura all’alta fertilità della vasta comunità musulmana. Un modello, quello nordico, che ha finito per generare altri problemi sociali, perché gran parte dei bambini privi di una famiglia stabile sono più insicuri e depressi, registrano maggiori difficoltà a scuola e, una volta cresciuti, cadono più facilmente nell’alcolismo e nella delinquenza.

Se in futuro l’Europa conoscerà una nuova primavera demografica non sarà certo per via di qualche alchimia politico-sociale studiata a tavolino dai politici o dagli esperti, ma grazie a una nuova rivoluzione culturale che metta al centro la vita, la famiglia e i figli.